La Romagna terra di “tiranni” e “bastardi”, secondo il suo ospite Dante (che vi lascia le proprie ossa), genera la più celebre delle eroine di tutta la letteratura mondiale. La ravennate Francesca “da Rimini” è protagonista di una vicenda inventata dall’autore, secondo il filologo Guglielmo Gorni (Dante. Storia di un visionario, 2008) che “dopo anni di studio del poema e delle altre opere”, non vuole accreditare “pie leggende” sull’Alighieri. Lorenzo Renzi (Le conseguenze di un bacio, 2007) invece suggerisce di cercarne la fonte “non nella vita (nella storia), ma nella letteratura”. Il tipo di analisi di Renzi è da lui stesso così dichiarato: ”Infaticabili violatori di tombe, abbiamo cercato di portare nello studio delle fonti lo spirito dei formalisti russi, distruttori di orologi per vedere come sono fatti dentro”.
Gorni delinea una specie di “ritratto in piedi” del grande poeta, partendo da un principio: “poche certezze e molti dubbi” ne segnano la vita sin dalla nascita. Gorni ricorda che “non si può dire neppure quando cominciò, per Dante, il periodo ravennate del suo esilio. I pareri dei dantisti sono al riguardo molto divisi. Soprattutto per carità di patria, ad esempio, Giovanni Pascoli opinava che tutta quanta la Commedia fosse stata composta in Romagna, soprattutto perché la selva oscura del primo canto sarebbe ispirata dalla pineta di Classe, allora estesissima rispetto all’attuale, di cui ad ogni buon conto è menzione nel celebri versi” del Purgatorio (c. 28). Quelli della “divina foresta spessa e viva”, le cui fronde tremolavano per l’aura dolce che Dante avverte. Gorni conclude: “Bisognerebbe dire agli amici di Ravenna” che la pineta di Classe ”non può ispirare due selve diversamente connotate”, quella “aspra e forte” del primo canto e questa amenissima dell’Eden.
Francesca non ha nome nel poema né si precisa il suo casato nel testamento del suocero, Malatesta da Verucchio. Soltanto gli antichi commentatori le danno una precisa identità. Dante non cita i nomi né del marito di Francesca né dell’assassino di entrambi. Scrive Gorni: l’episodio di Paolo e Francesca “ignorato dalle cronache contemporanee”, è “inventato dal nostro autore” che aveva dovuto conoscere Paolo nel 1282 a Firenze quando fu capitano del popolo e conservatore della pace.
Le cronache malatestiane che ne trattano, sono di età successiva e mediano la “verità” dai primi commentatori: i due figli di Dante, Jacopo e Pietro, Jacopo della Lana, l’Ottimo ed altri ancora che precedono Boccaccio. Al quale si deve la leggenda romanzesca “dell’inganno per cui Francesca crederà di essere destinata a Paolo, per scoprire solo più tardi che il vero marito sarà il fratello” Giovanni, detto Gianciotto perché “sozo della persona e sciancato”. Così spiega Renzi, che si chiede: ma “sarà vera anche la storia dell’uxoricidio?”. Renzi suggerisce di cercare una fonte per la vicenda di Francesca “non nella vita (nella storia), ma nella letteratura”. Qui sta il paradosso di Francesca: la sua tragedia diventa reale attraverso la creazione poetica.
L’uccisione di Paolo e Francesca si colloca tra il febbraio 1283 (ritorno di Paolo da Firenze a Rimini) ed il 1284. Nel 1286 c’è il nuovo matrimonio di Giovanni con Zambrasina che gli darà almeno altri cinque figli. Zambrasina è figlia di Tebaldello di Garatone Zambrasi, ghibellino faentino, morto nel “sanguinoso mucchio” di Forlì (1282) assieme al primo marito di lei, Ugolino dei Fantolini. (Il primo maggio 1282, Guido da Montefeltro capitano del comune di Forlì infligge una durissima sconfitta ai mercenari francesi al servizio dei papi, per domare la ribellione dei Romagnoli alla Chiesa.) Tebaldello è raccontato da Dante all’Inferno fra i traditori (c. 32) per aver aperto di notte le porte della sua città ai Geremei, guelfi bolognesi. Zambrasina ha avuto da Ugolino una figlia, Caterina Fantolini, che sposa Alessandro Guidi da Romena, zio di Oberto marito di Margherita figlia di Paolo Malatesti.
Delitto d’onore, delitto d’amore, racconta Dante. Ma se invece fosse stato un omicidio politico? La vicenda sentimentale rispondeva all’economia della Commedia meglio di un evento legato a rivalità di famiglia, tipiche dei tiranni deprecati come rovina generale dell’Italia. La figura di Pia de’ Tolomei, simmetrica a Francesca per collocazione (Purgatorio, c. 5), può illuminare l’episodio grazie alle corrispondenze interne dell’opera. Anche Pia muore per una violenza coniugale. Suo marito Nello de’ Pannocchieschi la fa rinchiudere nel proprio castello e poi uccidere: “Siena mi fé, disfecemi Maremma”. Si tratta di un uxoricidio che attesta il senso di arroganza del tiranno e dell’amoralità della sua visione del mondo, tutta incentrata sulla violenza come strumento e mistica del potere, esercitata pure nella vita matrimoniale. Ovviamente al lettore della Commedia non interessano le cause della tragica fine di Pia, ma l’immagine ideale che Dante ne offre.
Se esportiamo da questa vicenda maremmana la ricerca del suo senso nascosto per estenderla all’analogo fatto romagnolo, ci accorgiamo che Dante neppure per Francesca dice molto, aldilà della scena letteraria. Sulla quale giustamente sono stati versati, e si versano, fiumi di nobile inchiostro, sino alla fulminante definizione di Gianfranco Contini, di Francesca “intellettuale di provincia”. Poco interessano di solito le basse ragioni della cronaca nera che stanno alla base del discorso storico. Anche per Pia, come osservava Umberto Bosco, i documenti “tacciono”: e se “non è possibile fabbricare sulla rena di testi extrapoetici”, si deve soltanto constatare che Dante non spiega le ragioni per cui Pia fu uccisa, ”forse anche perché non le sapeva, semplicemente le sospettava”.
Pure per Francesca è possibile sospettare che Dante non conoscesse “la ragione” per cui fece una fine così letterariamente seducente. In lei Teodolinda Barolini (2000) ha visto come la “figura” di Dante, al punto che il poeta le appare quale doppio della sposa malatestiana: “the male pilgrim faints […] because he is like”, “il pellegrino uomo sviene […] perché è come Francesca”. E Renzi aggiunge: Dante avrebbe potuto gridare alla Flaubert: “Francesca c’est moi!”. Secondo Franco Ferrucci (2007) nella vicenda di Francesca “Dante proietta tanto di sé e della sua storia intellettuale oltre che sentimentale”.
Se il poeta non conosceva la ragione del duplice omicidio, poi Boccaccio l’ha costruita, con “una personale, molto boccacciana, versione cortese dei fatti”, chiudendo perfettamente il cerchio dell’invenzione poetica (Renzi). La quale si alimenta delle sue stesse creature, fingendo di sottrarle pietosamente all’orrore autoptico del giudizio della Storia, ma in realtà per tutelare soltanto se stessa. Come l’antico dio greco Crono che mangiava i figli appena nati nel timore d’essere da loro evirato.
Lo Sciancato aveva i suoi buoni motivi per odiare il Bello. Il primogenito Giovanni per invidia avrebbe potuto progettare l’eliminazione fisica del fratello minore Paolo, stimato protagonista della scena nazionale, come attesta l’incarico fiorentino affidatogli dal papa. In questo caso, la tresca amorosa sarebbe stata soltanto una messinscena diabolica, un alibi che avrebbe travolto pure l’innocenza di sua moglie.
Quanto accade fra Giovanni e Paolo si ripeterà con i loro eredi. Il figlio di Giovanni, Ramberto, il 21 gennaio 1323 uccide a Ciola il cugino Uberto jr. figlio di Paolo e di Orabile Beatrice. Uberto jr. era stato ghibellino, poi guelfo ed ancora ghibellino. A sua volta Ramberto è ucciso a Poggio Berni il 28 gennaio 1330 dai parenti di Rimini, come punizione di un suo tentativo di conquistare la città.
La mancanza di testimonianze sul delitto è più compatibile con un fatto politico piuttosto che passionale. Dal 1295 i Malatesti hanno il potere a Rimini. Chi comanda controlla i documenti meglio delle situazioni concrete. Il silenzio calato sulla vicenda avrebbe oscurato un episodio compromettente per la buona fama dei signori della città, ed allontanato un marchio d’infamia rispetto all’autorità religiosa e temporale della Chiesa.
Quando compone il canto quinto dell’Inferno Dante è lontano dalla Romagna. Ma vi è già stato nel 1302. A Ravenna giunge (forse) soltanto nel 1318 restandovi sino alla morte (1321). Potrebbe aver appreso della vicenda, od approfondito la sua conoscenza, secondo la “suggestiva” ipotesi avanzata da Ignazio Baldelli (Dante e Francesca, 1999), nei primi anni dell’esilio in Casentino nell’ambiente in cui viveva Margherita figlia di Paolo Malatesti.
Se non se ne fosse occupato Dante, oggi nessuno si ricorderebbe della vicenda di Paolo e Francesca, avvertita da lui “come un fatto non di cronaca privata” ma di una “vicissitudine pubblica” (G. Petrocchi). La memoria universale non significa una conseguente verità della narrazione poetica. Nulla permette di far luce circa i misteri sulla morte dei due cognati. La verità della poesia sta soltanto in essa stessa. Come sostengono gli studi più recenti che considerano “letterari” i moventi di questa storia d’adulterio, facendo giocare a Francesca il ruolo di “peccatrice perché letterata”. Con lei, come sostiene Renzi, Dante rappresenterebbe il proprio “abbandono degli errori giovanili, del mondo dell’amore terreno e della sua poesia (lo Stil novo)”.
Antonio Montanari