Non ventidue, ma ventuno aborti selettivi, negli ultimi tre anni, di feti per cui era stata diagnosticata la sindrome di Down. L’ospedale di Rimini corregge il dato pubblicato dal nostro giornale la scorsa settimana. Ma il risultato non cambia: su ventuno diagnosi prenatali di Trisomia 21, il 100% delle coppie ha deciso di interrompere la gravidanza.
Come spiega il direttore dell’U.O. di Ostetricia-Ginecologia dell’“Infermi”, il dottor Giuseppe Battagliarin, tra questi casi vanno considerate anche le coppie che arrivano al nosocomio riminese già con la diagnosi in mano e con l’intenzione di abortire. In altre strutture, diversamente dall’“Infermi”, non è possibile farlo dopo la 12ª settimana.
Dottore, come spiega questo 100%?
“Le coppie che arrivano per sottoporsi alla diagnosi prenatale, il più delle volte vogliono sincerarsi che non ci siano problemi. La Trisomia 21 è una sindrome che oltre al ritardo mentale, può causare più patologie di tipo cardiaco ed ematologico. Le persone con sindrome di Down sono più esposte ad infezioni, leucemie, anomalie del reparto gastroenterico. I futuri genitori che si sottopongono alla diagnosi prenatale, hanno paura di tutte queste conseguenze. Noi incontriamo queste coppie, le ascoltiamo, cerchiamo di capire se dopo la diagnosi si sta instaurando una sindrome depressiva con tutti i rischi a livello di equilibrio personale e familiare che ne conseguono. Quello che ci sentiamo dire più spesso è che hanno paura che i loro bambini affrontino la vita partendo da un handicap, si chiedono chi li accudirà una volta che loro non ci saranno più. Vedono in questo Paese uno Stato assente verso le persone con handicap e una società fortemente selettiva”.
Il numero di diagnosi prenatali di Trisomia 21 è in lieve crescita: dalle 4 del 2010 alle 6 del 2013. Perché?
“Aumenta l’età media della coppia (anche l’uomo incide su eventuali anomalie genetiche, seppure con una percentuale minore) anche per un ricorso sempre maggiore alla procreazione medica assistita. In Emilia Romagna, il 2% dei bambini nasce con queste tecniche (800 su 40mila) e il 7% delle donne che partoriscono ha più di 40 anni. Ad oggi, il 50% dei bambini con sindrome di Down nascono da donne sopra i 35 anni”.
Aumenta anche il ricorso a esami prenatali invasivi (amniocentesi e villocentesi)?
“Il dato è tendenzialmente stabile. Lo Stato e l’Ausl offrono questi esami solo alle donne sopra i 35 anni nel caso in cui il test combinato che si effettua alla 12ª settimana (esame della translucenza nucale e prelievo di sangue che dosi due specifiche proteine prodotte dalla placenta) dia un risultato positivo a livello di rischio di patologie genetiche. Nel 2011, all’ospedale di Rimini, abbiamo effettuato 451 amniocentesi e villocentesi, nel 2012 475, nel 2013 (al 18 settembre) 384. In regione siamo la provincia che ha la minore percentuale di diagnosi prenatali invasive. Altro discorso è il test combinato che determina il rischio tenendo conto anche dell’età: si propongono ulteriori approfondimenti se il valore è uguale o minore a 1:280 perché questo è il rischio delle donne con più di 35 anni di avere un bimbo con sindrome di Down”.
Dati nazionali dicono che l’amniocentesi è l’esame più richiesto e che il 20% di chi lo sceglie ha meno di 35 anni. Conferma a livello riminese?
“Confermo a livello regionale, ma a livello di ospedale noi offriamo questo esame solo per le donne sopra i 35 anni o sotto, con le percentuali di rischio che le ho appena indicato. Così ci indica il Sistema Sanitario Nazionale”.
Se il test combinato non è un esame di routine, ma facoltativo, perché i ginecologi lo propongono sempre più spesso, anche alle donne sotto i 35 anni?
“Il ginecologo non deve chiedere questo esame come la glicemia, ma c’è stata una sentenza in Italia che ha condannato un medico per non aver fatto un’adeguata indagine su una paziente. Questo test rappresenta quasi un mezzo di difesa, ma la difesa dovrebbe essere esplicitata. Bisogna sempre chiedere alla donna e alla coppia se vuole sottoporsi a questo esame, spiegare in cosa esso consiste, gli eventuali rischi. Spiegare che se la donna non interromperebbe comunque la gravidanza, allora non ha senso farlo. Va però considerato un aspetto: il test combinato può indagare anche se la placenta si sta sviluppando in modo inadeguato. Qualche medico lo chiede per andare ad indagare questo elemento”.
Nel 2006 un Rapporto del Tribunale dei diritti del malato ha però constatato che il 12% degli esami prenatali ha una diagnosi sbagliata. L’errore in questi casi può essere letale…
“È un dato che non mi risulta. Il test combinato ha un 5% di falsi positivi mentre per amniocentesi e villocentesi l’errore è inferiore a 1:10.000”.
Che rischio c’è invece di perdere il bambino sottoponendosi ad amniocentesi e villocentesi?
“C’è l’1% di rischio”.
Concludendo, la diagnosi prenatale è sempre più praticata anche tra le donne più giovani?
“La politica della Regione Emilia Romagna è quella di andare verso un’offerta massiva del test combinato. È uno degli obiettivi del Percorso Nascita secondo cui lo screening dovrà rivolgersi, se non al 100% al 60% delle donne, indipendentemente dall’età”.
Alessandra Leardini