Ci sono ancora studiosi seri che si divertono a scrivere pagine originali, proponendo interrogativi e non soltanto granitiche certezze. Come Giuliana Gardelli che, in Morte di un monastero e del suo assassino (Raffaelli) indaga su Scolca con levità di scrittura. Dietro cui si nasconde, senza arroganza alcuna, il suo prestigioso curriculum di studiosa di Storia dell’arte.
Nel 1940 arriva da Roma al Castello Sforzesco di Milano una maiolica di cui si comincia a parlare nel 1972, attribuendola a Carlo Malatesti (1368-1429) di Rimini. Dove si trovava quella maiolica? L’ipotesi avanzata rimanda appunto a Scolca. Del cui monastero si presenta qui la storia, partendo dalla donazione dell’11 gennaio 1418 fatta da Carlo Malatesti per una piccola chiesa, ai frati Agostiniani di San Paolo I Eremita.
A loro nel 1421, subentrano gli Olivetani. I quali iniziano i lavori di ampliamento dell’oratorio. La vicenda del monastero approda all’8 maggio 1802. Quando, dopo le soppressioni napoleoniche degli Ordini religiosi e l’incameramento dei loro beni allo Stato, si decide la sua demolizione.
Dal capitolo dedicato alle riflessioni sulla vicenda, riprendiamo l’inquietante conclusione: “Dove si trovano ora i reperti dell’Abbazia di Scolca? Una ricerca nelle ville sul colle e nelle dimore patrizie del Riminese potrebbe individuarne non dico tutti, ma almeno una parte?”. Come è chiaro, alla domanda non possono dare una risposta forte e chiara gli studiosi del ramo, ma altri esperti del patrimonio artistico che, se non siamo male informati, agiscono nell’Arma dei Carabinieri.
Tornando alla Storia ed alle storie di Scolca, non ci allontaniamo dallo spirito di questa domanda avanzata dalla prof. Gardelli, quando apriamo il capitolo successivo. Dove l’autrice torna sulla distruzione di Scolca, ideale e simbolico luogo di un delitto. Infatti i dieci acquirenti di Scolca, sono messi assieme da un avvocato, Domenico Manzoni, che fa una brutta fine. Nato a Faenza nel 1775, a 25 anni è condannato come giacobino ed eretico, per cui si rifugia a Forlì. Alcuni lo qualificano conte, altri lo dicono commerciante di granaglie. Grazie alle quali fa speculazioni bancarie che gli rendono una fortuna enorme, come osservava il compianto storico Antonio Drei. Manzoni è ucciso a Forlì il 26 maggio 1817.
Fu in rapporto con Antonio Canova. A cui nel 1814 ordina una statua che arriva alla famiglia dopo la sua morte. La vedova Geltrude Versari nel 1830 la vende ad un principe russo. Se ne sono perse le tracce. Invece di Canova, a Forlì, si conserva tuttora il monumento sepolcrale per Manzoni donato dallo scultore a Geltrude Versari.
Perché Manzoni fa quella fine? Alcuni studi sulla Romagna prerisorgimentale apparsi fra 1910 e 1918, indicano una certezza: Manzoni cadde vittima di un regolamento di conti interno al mondo della Carboneria. Non si scarta neppure l’ipotesi della rivalità delle Logge massoniche con la Carboneria. Il popolo considerava Manzoni un incettatore di grani, un affamatore in quel tempo di carestia. Sospettato di tradimento dai “cugini” (gli affiliati) carbonari, sarebbe stato punito per il suo agire. Per ottenere privilegi dal governo, scrive Gardelli, avrebbe fatto i nomi dei capi carbonari. Che poi si sarebbero vendicati.
Nel 1824 un delatore confida alla polizia che il ricco banchiere Manzoni è stato ucciso da Vincenzo Rossi e Pietro Lanfranchi. Lanfranchi è pure lui carbonaro, con il grado di “maestro terribile”, ovvero di chi mette alla prova i nuovi soci. E pure lui ha fatto una brutta fine a 35 anni nell’agosto 1822, si disse avvelenato in carcere. Lo piansero come prode guerriero che sotto le armi francesi aveva ricoperto il suo corpo di gloriose cicatrici.
Antonio Montanari