I santi a cui la comunità guarda nel corso della sua storia sono come le bussole di cui si serve per ridefinire costantemente la rotta e per trovare un aiuto nel suo cammino di fedeltà alla Parola. Nelle virtù celebrate nei suoi santi troviamo espressa l’autocoscienza della comunità, i problemi che si trovò ad affrontare nel tempo, le sue cadute e i richiami ad una sempre necessaria opera di purificazione.
I martiri
di Diocleziano
Le prime figure di santi a cui la comunità guarda sono i martiri, coloro che a costo della vita hanno continuato a testimoniare la fedeltà alla Parola. All’interno del Tempio Malatestiano sono custodite le ossa dei primi “testimoni”, Facondino, Gioventino, Pellegrino e Felicita, uccisi al tempo di Diocleziano; a santa Innocenza, martire sotto lo stesso imperatore, pochi decenni dopo la morte venne eretto un tempietto all’incrocio del cardo e del decumano, le due arterie stradali più importanti della città romana.
San Gaudenzio
nel IV secolo
Verso la metà del IV secolo si colloca la figura di san Gaudenzio. Originario di Efeso, aveva ricevuto il battesimo a Roma ed era stato mandato dal papa a Rimini, che da tempo “era priva di pastore”. In città si era dedicato alla costruzione spirituale materiale della Chiesa.
In occasione del Concilio di Rimini si schiera senza esitazione contro l’eresia ariana e per questo trova l’opposizione della autorità laica, rappresentata dal console Marcianus, decisamente favorevole all’eresia; viene condotto fuori dalla cerchia muraria, bastonato e lapidato, per essere poi gettato in un pozzo.
L’efficacia della predicazione, il mecenatismo, la decisa e consapevole difesa della ortodossia fanno di lui un modello a cui la comunità dei credenti ha guardato anche nei secoli successivi.
Anche se non possediamo suoi scritti e i racconti della sua vita risalgono a secoli posteriori, tuttavia i reperti archeologici ci attestano che già nel IV secolo, pochi anni dopo la sua morte, nel luogo del suo martirio viene fondata una piccola basilica. Il luogo si trovava lungo la via Flaminia, a settecento metri fuori dalle mura della città (nella zona quindi dell’attuale Palazzetto dello Sport), ai margini del principale sepolcreto di età romana, che presto divenne luogo di sepoltura per i cristiani e in particolare dei vescovi. Basilica e sepolcreto, ampliati nel tempo divengono meta di culto. Da San Gaudenzio prese il nome la Porta cittadina verso oriente, che diverrà la porta di accesso all’episcopato per quanti in seguito siederanno sulla cattedra di Rimini. La tradizione vuole infatti che i vescovi eletti, “dismessi gli abiti da viaggio si rechino a visitare e onorare la tomba del santo predecessore” prima di procedere alle altre tappe della cerimonia di investitura.
Lo scalpellino
dalmata Marino
Contemporaneo di Gaudenzio è Marino, lo scalpellino dalmata che giunge a Rimini per obbedire ad un ordine di Diocleziano che aveva reclutato “esperti” da tutte le parti dell’impero per ristrutturare le mura della città. Qui giunto inizia, coadiuvato da Leo, un’ intensa opera di evangelizzazione. Quando Gaudenzio è ordinato vescovo, sente parlare delle loro virtù, li desidera come collaboratori al proprio fianco, li fa chiamare e conferisce loro il mandato di predicare, ordinando Leo prete e Marino diacono. Nella figura di Marino la comunità cristiana vede incarnato un modello di vita che riesce a coniugare la vita attiva con la contemplazione e lo accoglie come un diverso ma complementare paradigma di santità: accanto a chi dà la vita per testimoniare la propria fede ci può essere spazio per chi agisce dentro la quotidianità della storia nella aperta disponibilità agli altri, in un servizio continuo che in nulla indebolisce l’intensità della vita interiore.
Ma, come per la necessità di un richiamo alle origini, la chiesa riminese sembra preferire come paradigma di santità quello dei martiri.
Colomba e
l’ira di Aureliano
Alla fine del VII secolo si diffonde il culto di santa Colomba, alla quale nel 1154 verrà poi dedicata la cattedrale. Originaria di Sens, la giovane Colomba aveva sfidato l’ira dell’imperatore Aureliano: non l’ avevano dissuasa dal rimanere fedele alla sua fede né la promessa di matrimonio col figlio dell’imperatore, né la violenza fisica, né il fuoco dell’incendio, né lo scherno della folla. A proteggerla erano intervenuti, di volta in volta, animali feroci ammansiti dalle sue parole o la pioggia, finché lei stessa si era offerta alla decapitazione per spada, certa della gloria celeste che l’attendeva.
Il corpo
del martire Giuliano
Ancora nel X secolo, all’epoca di Ottone I (961-973), è la vicenda di un martire della fede ad essere proposta come modello. Si tratta di san Giuliano, un giovane che al tempo delle persecuzioni di Decio non aveva voluto abiurare alla sua fede ed era stato gettato in mare dentro un sacco, zavorrato con sabbia, insieme ad alcuni serpenti. Il suo corpo era però miracolosamente approdato su di una spiaggia (forse nell’isola di Proconneso) dove era stato sepolto in un sarcofago di marmo di Istria. A causa della persecuzione, però, era stato lasciato su di un promontorio alle intemperie. Un maremoto l’aveva staccato e portato in mare, finché, galleggiando come fosse di legno era approdato, appunto all’epoca di Ottone I, sulla spiaggia di Rimini. Lì era stato accolto nel monastero dei Santi Pietro e Paolo (l’attuale San Giuliano), dove era stato a lungo vegliato per paura che i Veneziani lo trafugassero.
Si lega a questo approdo anche il racconto di miracoli di guarigione, del corpo e dello spirito, a testimoniare l’esigenza di una rinnovata e più elevata forma di spiritualità, in una comunità che avverte come il pericolo non venga più dal paganesimo o dalle dottrine di Ario, ma dalla umana debolezza dei suoi membri e, in particolare, dalla eccessiva compromissione con il potere. Il racconto del miracolo che intervenne per impedire al Vescovo di portare il sarcofago in cattedrale può essere spia della dialettica emergente tra un paradigma di spiritualità vescovile indebolito dall’ossequio al potere laico e quello monastico. E non si trattò soltanto di antagonismo spirituale. A partire dal XIII secolo, infatti, san Giuliano sarà considerato dal Comune patrono della città e sulla prima moneta coniata dal Comune apparirà la sua immagine. A questo non saranno evidentemente estranei motivi di ordine politico, se si considera che tutto il borgo su cui sorgeva il monastero formava una giurisdizione libera e indipendente dal Vescovado.
Il modello
di Nicola di Mira
La stessa esigenza di richiamo delle virtù delle origini ripropone nello stesso secolo, come modello di vescovo san Nicola di Mira. Vissuto dopo la pace costantiniana (313), si può definire il primo santo non martire. Nonostante la sua lotta contro l’eresia ariana non si fosse espressa in un trattato di teologia, la sua venerazione si era estesa prestissimo in tutto il mondo cristiano sia in Oriente che in Occidente. Lo accompagnava una straordinaria fama di taumaturgo che sapeva liberare chi era stato ingiustamente condannato, salvare dall’inclemenza degli eventi naturali, sottrarre alle occasioni di peccato. Nella sua vicenda la comunità dei credenti scopre che si può essere testimoni di Cristo non solo nel martirio, ma anche nell’impegno quotidiano, insegnando al proprio gregge il retto credere e il retto operare.
Arduino,
prete e monaco
Nei tempi difficili a cavallo dell’anno Mille, è ancora alla figura di un santo che si guarda per non perdere la strada. Si tratta di Arduino, un riminese per eccellenza, che non viene dall’Oriente né il mare riconduce miracolosamente alle nostre spiagge.
Formatosi nella lettura dei Padri della Chiesa, era diventato sacerdote, ma presto aveva accettato il consiglio del proprio maestro di fuggire i cattivi esempi degli altri sacerdoti. Si era quindi ritirato a vita monastica, ma non aveva trovato altra guida spirituale se non un altro sacerdote secolare, l’umile Venerio, il quale venne in seguito eletto dal vescovo Giovanni abate del monastero di San Gaudenzio. La sua giornata è improntata da un chiaro ideale ascetico, ma la ricerca di un incontro totalizzante con Dio non lo isola, anzi, lo mette in condizione di prestare più facilmente ascolto alle parole e alle esigenze degli altri e lo rende capace perfino di opporsi alle prepotenze del conte Rodolfo nei confronti dei più poveri. Nella quotidianità di veglie, preghiere e lotte per sottrarsi al peso della carne, Arduino non fugge al mondo, ma si apre agli altri per aiutarli nelle difficoltà materiali e accompagnarli nel loro cammino di perfezione. In questa figura di santo che resta prete pur entrando in monastero, che cerca un nuovo rapporto con Dio per aprirsi al mondo, la comunità dei fedeli, in anni lacerati da profonde discordie, vede incarnata una concreta possibilità di equilibrio tra ideale monastico e sensibilità pastorale, possibilità che trova le sue radici profonde nella preghiera e nella meditazione. (4-fine)
Cinzia Montevecchi