C’ è un futuro per il teatro. Lo dimostrano i tantissimi giovani che hanno affollato Santarcangelo: per fedeltà a un Festival che negli anni ha saputo essere laboratorio permanente di sperimentazione, interpretando le nuove tendenze della scena sempre con grande anticipo.
Quello che si poteva osservare nell’edizione del cinquantennale – affidata alle cure artistiche di Daniela Nicolò ed Enrico Casagrande – è come la riflessione sulla parola sia sempre più periferica, spesso trasformata in modo del tutto virtuale. Esemplare, da questo punto di vista, Il terzo Reich della Socíetas, in cui vengono proiettati su uno schermo – a ritmo vorticoso e scanditi da rumori simili a scariche elettriche – i sostantivi dell’intero vocabolario italiano, fino a non essere più distinguibili con gli occhi: perfetta dimostrazione di come le parole oggi siano svuotate di senso, riconducibili a una sorta di orgia verbale dove tutto si confonde. Si comprende allora anche il significato di un titolo che evidenzia in modo brutale il carattere violento e totalitario di una comunicazione, alla quale ormai nessuno può più sottrarsi, e destinata inevitabilmente a sconfinare nella più totale incomprensione.
Ai poli opposti del rigore afasico, portato alle estreme conseguenze da Romeo Castellucci, si colloca Sovrimpressioni, dialogo fra due attori che si ritrovano di nuovo a lavorare insieme, dove si legge in filigrana un omaggio al film Ginger e Fred di Fellini. Qui la parola è fondamentale e diventa la chiave per ripensare ai sentimenti e a dar loro un nome. Protagonisti la bravissima Daria Deflorian (nella foto), capace di una malinconica rievocazione del passato e allo stesso tempo di uno sguardo disincantato sul presente, accanto a un più goffo Antonio Tagliarini, che non ha la stessa lungimiranza introspettiva della sua partner, e proprio per questo svela una maggiore vulnerabilità esistenziale.
Non ha niente a che fare con la parola, anzi la ignora deliberatamente in quanto veicolo di relazioni, Sonora Desert dei Muta Imago (cioè Claudia Sorace, regista, e Riccardo Fazi, drammaturgo e sound designer). Questo percorso per venti spettatori, nello spazio di Villa Torlonia, viene definito dagli autori “esperienza percettiva” e ha un carattere oscillante fra l’installazione, il concerto e la performance sonora. Si procede scalzi, entrando in una stanza dove sono esposte pagine del diario di bordo di un viaggio compiuto nel deserto di Sonora, al confine tra Arizona e Messico, nei primi anni sessanta; poi ci si distende su candide amache, con un filtro sugli occhi per proteggersi da stimoli visivi troppo intensi e predisporsi all’ascolto di musiche appositamente composte da Alvin Curran. Un’esperienza disinnescata dalla realtà quotidiana, ma che assume un valore non scontato in questa periodo di postpandemia.