Se nessuno se ne assumerà il carico la Collegiata sarà presto un rudere in più , a testimonianza del disinteresse di una comunità per la sua storia, per la sua arte, la sua cultura. E anche questo farà storia.
A Santarcangelo la grande Collegiata non è più agibile e ha bisogno di restauri per migliaia di euro. I preti ne hanno già investiti molti, ma altri non ne hanno. “Perché non vendono la modesta chiesa del Suffragio per accomodare la Collegiata?” ci si è chiesti. La chiesa del Suffragio, dovuta a una delle confraternite più popolari mai esistite, era sorta nell’Ottocento vicino all’ospedale, e in un certo senso gli era funzionale perché vi si svolgevano funzioni religiose per i defunti. Non è molto grande, ma è dignitosa e centrale. L’idea di vendere una chiesa mi sembra incredibile e quasi blasfema, qualunque sia l’utilizzo profano a cui può essere destinato l’edificio “sconsacrato”.
Breve riflessione
Perdonatemi, non è che voglio provocare, ma mi chiedo e mi permetto di chiedere: perché non trasportare le funzioni parrocchiali dalla Collegiata nella chiesa del Suffragio? Molte meno spese di restauro, di manutenzione, di elettricità, di riscaldamento, e di tasse. Una gestione senza dubbio sostenibile da una normale parrocchia. È troppo piccola, dite? Non è vero. Se durante le feste straordinarie ci fosse troppa gente anziché due messe i preti ne potrebbero celebrare tre.
E la Collegiata? Oltre ad essere un edificio religioso la Collegiata è un “ monumento cittadino”, un edificio pubblico in senso lato, come dimostra bene la sua storia (qui di seguito se ne può leggere un breve riassunto). Se la città vuole che rimanga in piedi, se ne occupi lei: rimarrà un edificio religioso, aggregato alla parrocchia, perché quella è la sua funzione, la sua forma, la sua storia. Del suo uso e della sua gestione normale se ne occuperanno i preti, ma dal punto di vista “materiale” ovvero finanziario se ne occuperà la comunità civile. Rimarrà un monumento che testimonia pubblicamente dell’antichità e dell’importanza della città, che contiene le tombe e i ritratti dei suoi antichi maggiorenti, le opere d’arte delle sue confraternite popolari, le sue devozioni tradizionali, e continuerà a parlare della storia e della cultura di tutta la comunità, religiosa e non; verrà utilizzata come edificio sacro solo in determinate circostanze: per esempio per San Michele, per il beato Simone Balacchi, per i Caduti di tutte le guerre, per Natale e per Pasqua eccetera.
Dite che neanche la città ha abbastanza soldi per restaurarla, e che comunque alla comunità che l’ha voluta ora non importa più niente, e che non la considera più un edificio di qualche prestigio e interesse? Bene, allora si tenga un rudere in più, a testimonianza del disinteresse per la sua storia, la sua arte, la sua cultura. Anche questo sarà e farà storia. Beh, allora intervenga lo Stato, perché quell’edificio monumentale è importante, oltre che dal punto di vista della storia e della cultura particolare della zona, per la nostra cultura in generale; insomma è unico e in un certo senso insostituibile per la comprensione della nostra civiltà. Ma lo Stato ha delle leggi … concordatarie, direte voi. Ma in molti punti sono sbagliate, e certo sarebbe proprio ora di correggerle.
Perché non cominciare da Santarcangelo? E se nemmeno lo Stato intende occuparsene? Certo è possibile, vista la statura dei nostri politici, per i quali la cultura è cosa inutile o molto secondaria, “che non si mangia”. Allora … pazienza, lasciamo che crolli. Tanto fra poco andremo tutti ad abitare sulla luna e non avremo più bisogno di chiese da costruire e da restaurare.
Breve storia della Collegiata di Santarcangelo
La chiesa Collegiata di Santarcangelo è stata voluta ed eretta dal paese (allora non ancora “città”) di Sant’Arcangelo (allora non ancora Santarcangelo). Infatti il suo Consiglio Comunale il 3 giugno del 1705 affidava a tre suoi membri (laici) il compito di studiare il problema di costruire una nuova chiesa in cui farsi riconoscere come “ il comune che primeggia, dopo Rimini, su tutti i comuni di quella vastissima Diocesi” (come scriveva Marino Marini nel 1844). Allora i centri abitati attribuivano la loro importanza soprattutto ad una grande chiesa (più tardi ad un bel teatro, poi ad uno stadio ben attrezzato e ultimamente, forse, ad un bel parco pubblico con fontane e fontanelle).
I tre membri del Comune ci misero quasi quarant’anni per espletare le pratiche relative, e finalmente il 6 gennaio del 1741 ottennero il permesso dal governo (cioè l’indispensabile “bolla” papale).
Subito il Consiglio Comunale scelse e mise a disposizione il luogo in cui costruire la nuova chiesa, mentre le confraternite popolari (del Rosario, della Purificazione, del SS. Sacramento, e poi dei falegnami, dei fabbri, dei sarti, degli agricoltori eccetera) mettevano a disposizione le loro rendite, e la gente comune offriva lavori di manovalanza gratuita. Il progettista era stato scelto fra i migliori (Giovan Francesco Buonamici, architetto camerale, cioè papale) ed ebbe l’incarico di costruire una chiesa “bella grande”, un sorta di cattedrale di tutto il territorio settentrionale della diocesi: cioè un edificio che finalmente dimostrasse la vera importanza del paese.
I lavori cominciarono nel 1744 e finirono nel 1758, e il Comune subito commissionò speciali banconi per le autorità che l’avrebbero rappresentato durante le funzioni. Le spese per la grande costruzione furono alte; il comune aveva offerto sostanziosi stanziamenti, i privati importanti donazioni, le ripetute questue, somme ingenti. Certo non tutto si era potuto fare (il secondo campanile, il portale, gli altari secondari…), perché erano brutti tempi per le finanze pubbliche. Ma la nuova grande chiesa esisteva ed era proprio bella. Tutti ne furono contenti; anche i preti, riuniti “in collegio” al servizio della gente nella monumentale “collegiata”. Ma, grande com’era, subito apparvero molto alte le spese per la sua gestione.
Ai lavori di manutenzione e restauro in gran parte provvedeva il Comune, che dell’edificio si sentiva responsabile: nel 1824 per un primo sostanzioso restauro stanziò ben 200 scudi, in aggiunta alle offerte della gente; nel 1878 ben 3000 lire più altre 3000 (in nero, cioè non autorizzate dal governo: “ per semplice zelanteria clericale”, come scriveva un segretario comunale anticlericale); nel 1881 1000 lire l’anno per sei anni.
Non so come e chi abbia pagato i restauri del 1934, del 1937, del 2000 (quelli degli anni Ottanta furono parzialmente sostenuti dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Rimini). Oggi per i lavori “indispensabili” occorrono migliaia di euro. Perché vengono chiesti solo ai preti, che hanno già dato quanto potevano, e altri soldi non ne hanno? È vero che l’edificio è “intestato” a loro, ma appartiene a tutta la comunità.