“Una delle più interessanti testimonianze culturali della città, una vera e propria stratificazione di memorie storiche e di bellezze artistiche, depositate attraverso i secoli come in un prezioso scrigno”. Con queste parole Giuliano Ioni, Presidente della Cassa di Risparmio di Rimini presenta il volume dedicato a una delle chiese più famose e amate di Rimini: Santa Rita.
La Chiesa riminese dei santi Bartolomeo e Marino detta di Santa Rita è il volume che Pier Giorgio Pasini dedica all’edificio.
Il titolo offre al lettore una notizia della quale non molti sono a conoscenza: che la chiesa della Santa tanto amata in realtà non porta il nome di Rita ma di Marino e Bartolomeo.
«La singolarità dell’edificio – si legge ancora in apertura – è dovuta al fatto che, costruito probabilmente tra X e XI secolo, ha sempre mantenuto l’intitolazione al Santo Marino (San Bartolomeo è un’aggiunta di età napoleonica): una diffusa leggenda vuole che sia stato eretto sul posto dove esisteva una cappella dedicata al Santo di Arbe, fondatore mitico, secondo la tradizione, della Repubblica. La bella chiesa è quindi una delle non rare ma neppure troppo frequenti dedicazioni di chiese alla memoria del Santo ed è anche una consistente testimonianza del diffondersi del culto di San Marino nella città di Rimini, oltre a rappresentare un legame speciale con la Repubblica Sammarinese».
Pasini, storico dell’arte, ricostruisce nel volume le vicende che interessarono l’edificio partendo da Marino e Bartolomeo sino ad arrivare a Rita.
La figura di maggior rilievo in questa storia è sicuramente quella di Marino. Nota la sua vicenda, che tra storia, devozione e leggenda, lo volle muratore e tagliapietre, a Rimini nel 257 per lavorare al restauro delle mura della città. Marino vi rimarrà a lungo, facendo anche opera di evangelizzazione, poi costretto dalle persecuzioni di una donna si rifuggerà sul monte Titano dove darà vita ad una comunità di eremiti e costruirà una chiesa in onore di San Pietro.
«Non meraviglia dunque trovare a Rimini nel Medioevo una chiesa a lui dedicata, – scrive Pasini – le cui prime notizie risalgono al 1136, ma certamente di fondazione assai più antica: si trattava della chiesa di un monastero di suore, dette de Abatissis. Rifatta più di una volta, della sua prima conformazione non esistono tracce, che forse ci fornirebbero qualche indizio sulla data di fondazione. Comunque di un legame antico con san Marino, o meglio con la sua leggenda, ci dice qualcosa il fatto che sia stata costruita proprio molto vicino alle mura urbiche romane (che il Santo avrebbe risarcito o ricostruito) e accanto ad un pozzo di età tardoromana, che il Santo avrebbe scavato (…), tuttora esistente nel chiostro sul fianco sinistro della chiesa.
Difficile però è stabilire la precedenza fra la chiesa e la definizione della leggenda del Santo. Può darsi che la fondazione della chiesa sia contemporanea allo stabilizzarsi della leggenda di san Marino e alla sua formulazione definitiva, cioè intorno al X-XI secolo. È di un qualche interesse riflettere sul luogo in cui questa chiesa è sorta. Anche uno sguardo superficiale alle antiche piante della città (benché tarde) rivela subito la sua marginalità rispetto al centro cittadino. In epoca imperiale romana tuttavia nella zona sorgevano l’anfiteatro, edifici pubblici e privati e forse industrie artigianali che sfruttavano la presenza dell’acqua della profonda fossa che la attraversava (Apsa, Apsella, e poi Fossa patarina o semplicemente Patara); inoltre la vicinanza del porto contribuiva certamente a darle vivacità. (…)
Vicino alla fossa dopo il X secolo cominciarono a sorgere povere case e baracche, ma i loro abitanti, malvisti perché esercitavano mestieri umili o mendicavano, furono ben presto accusati di eresia: così nel 1254, in esecuzione di una bolla di Innocenzo IV, quelle baracche furono bruciate, mentre l’intero rione ormai definito “pataro” e quindi eretico, veniva maledetto e interdetto (…). E tale rimase per molti secoli, e in quanto zona disabitata e isolata dalla fine del Quattrocento alla fine del Cinquecento ospitò il lazzaretto, costruito proprio sui ruderi dell’anfiteatro romano. Intorno a quella zona ormai marginale presto si stabilirono diverse piccole comunità di devoti penitenti, soprattutto di povere donne riunite in comunità più o meno regolate, in ambienti ricavati in genere tra i ruderi delle antiche mura e dell’anfiteatro: da quella della Beata Chiara da Rimini (beghine senza una regola precisa) a quelle greche di Perzeio (cistercensi) fuggite da Bisanzio, a quelle di Sant’Eufemia (servite). Uno dei più antichi di tali conventi, già esistente nel 1136, era appunto quello detto de Abatissis, cioè delle abbadesse; forse si trattava di suore benedettine, che nel 1258 abbracciarono la regola francescana delle clarisse, e che nel 1464 vennero sostituite dei Canonici Regolari Lateranensi, che vi rimasero sino alla soppressione napoleonica del 1797. La chiesa di questo monastero era dedicata, pare fin dall’origine, proprio a san Marino: la dedicazione ad un antico santo eremita era del resto assai appropriata ad un monastero assoggettato alla regola del primo grande eremita dell’occidente, san Benedetto».
Ricostruisce, Pasini, la storia non solo del passaggio di Bartolomeo, ma la storia dell’edificio, di tutti i lavori, i restauri e ritocchi avvenuti nel tempo per arrivare, infine, a Santa Rita. Si legge:
«Santa Rita da Cascia è entrata per ultima nella storia della chiesa di San Marino. La devozione per questa mistica umbra, vissuta nel VX secolo ma canonizzata solo nel 1900, è stata introdotta nella chiesa nel 1925 per iniziativa di una devota zitella, Clotilde Leardini, cugina e perpetua dell’allora parroco don Mariano Galavotti, e nonostante le sue resistenze e perplessità. Questa devozione “nuova” prese subito piede e si rivelò ben presto prevaricante, tanto che in pochi anni finì per far dimenticare tutte le altre e riuscì perfino ad oscurare i nomi dei legittimi santi titolari. Presso la gente comune la chiesa non tardò a cambiare nome: dimenticati i santi Bartolomeo e Marino, divenne la “chiesa di santa Rita”, e ancor oggi è nota con la sua vera intitolazione, ma appunto con questa».
Intorno alla devozione, scrive ancora Pasini: « Una modesta statua di cartapesta di santa Rita – tra l’altro una statua senza altare, e non l’unica nelle chiese riminesi- intorno alla quale fiorì rapidamente una devozione intensa, cui non tardò ad affiancarsi una confraternita. Una devozione che costituisce un fenomeno religioso rilevante e uno dei più vistosi degli ultimi decenni, che ha avuto ed ha ancora un momento eccezionale ogni 22 maggio, giorno di festa della Santa, con un incredibile concorso di fedeli dalla città e da tutto il territorio diocesano».
La chiesa è ricca di opere importantissime e, restaurata più volte, si sono resi necessari dei ritocchi anche recentemente. Complice dell’ingrigimento delle pareti quei ceri che i devoti accesero a lungo ai piedi della Santa, soprattutto nel periodo prossimo alla sua festa.
a cura di Angela De Rubeis