Oltre ad essere la più grande, la chiesa di Sant’Agostino è sicuramente una delle più importanti della Diocesi di Rimini, per la sua posizione nel centro storico, per la sua antichità, per i tesori d’arte e di fede che racchiude; e di certo è una delle più belle della Romagna. E in città è l’unica a possedere ben quattro altari con fastose ancone lignee settecentesche, intagliate, dipinte e dorate. Una di queste, la prima a sinistra entrando, è appena stata restaurata grazie alla grossa sovvenzione di un benefattore che ha voluto rimanere anonimo. In apparenza delle quattro è la più modesta, ma la più bisognosa di restauro: la sua vernice si stava distaccando a larghe scaglie portandosi dietro la verniciatura originaria, ora ricomparsa.
La sua struttura era simile all’attuale, ma era colorata di grigio e di rosa e aveva il bel paliotto rotto e lacunoso. Sembrava un po’ lebbrosa, per via delle spesse scaglie di colore che si erano distaccate, ma nessuno ci faceva caso; d’altra parte l’altare è dedicato ad un santo agostiniano ora poco noto, san Giovanni da San Facondo, ritratto nella tela sull’altare mentre salva un bambino caduto in un pozzo. La tela, importante ma mediocre, è la prima opera pubblica del pittore riminese Giovan Battista Costa, dipinta nel 1725. Allo stesso periodo è assegnabile tutto l’altare, che con la tela è molto coerente.
Il restauro, costato diversi mesi di lavoro, è stato eseguito da Rossana Allegri, che ha fatto saggi stratigrafici alla ricerca dei colori originari: questi sono risultati uguali a quelli delle altre ancone della chiesa, di un giallo intenso che gioca con l’oro degli intagli. Ma questo colore era stato come affogato da strati di gesso e di una vernice grigiastra assai densa che avevano finito per alterare anche le modanature dell’architettura, caratterizzata da colonne tortili e da capitelli finemente intagliati. Probabilmente durante i restauri seguiti al terremoto del 1916, o a quelli di sistemazione seguiti alla demolizione delle cappelle laterali (negli anni trenta), si era cercato di rendere classica, o neoclassica, una architettura che era invece di puro gusto barocco, e che disturbava il gusto corrente per il colore e le elaborate decorazioni, in parte distrutte senza pietà.
Durante i restauri, con la supervisione della Soprintendenza, sono affiorati intagli all’interno delle colonne tortili, tracce di dorature nelle decorazioni, aggiunte nella cimasa (probabilmente non originale); e si evidenziavano perdite di intagli nelle lesene laterali, nel fregio alto e nella predella. La bella decorazione intagliata di quest’ultima è stata ritrovata in un magazzino della chiesa e, restaurata, è stata ricollocata al suo posto. Lateralmente ad essa, nei plinti delle colonne, sono riaffiorati gli intagli di due stemmi nobiliari, leggibili nonostante i danni e i raschiamenti subiti: gli stemmi recano in capo tre gigli e nel corpo un albero fronzuto con un animale passante (forse un leone); appartenevano alla famiglia che nel Settecento aveva l’jus patronato dell’altare (non trovati nel repertorio del Clementini). Altra sorpresa, la pulitura del piano della mensa dell’altare, in buona parte formato dal reimpiego di una lastra tombale che reca su tre righe la seguente scritta, mal leggibile perché molto consunta, in caratteri gotici: Sepulcrum ser Iohannis de Regio / de contrata Santi Silvestri / civitatis Arimini et suorum heredum. Si trovava sul sepolcro del notaio Giovanni di Francesco da Reggio, noto grazie a vari documenti degli anni 1422-24 (come mi informa Oreste Delucca). Credo sia l’unica lastra terragna quattrocentesca superstite proveniente dall’originario pavimento della chiesa, che era ricchissima di tombe. Un piccolo saggio nel muro sull’altare, dietro alla tela, non ha dato alcun risultato (si sperava in traccie di affresco trecentesco!). A conclusione del restauro, la restauratrice è volata a Gerusalemme per collaborare al restauro della “cupola della Roccia di Abramo”, nel sito in cui sorgeva il tempio di Salomone.
Il recupero è splendido, e vanno ringraziati la restauratrice e l’anonimo benefattore che l’ha finanziato, e sperare che altri – anonimi o no – si facciano avanti per restaurare opere d’arte che soffrono per i danni dovuti al tempo e agli uomini.
Pier Giorgio Pasini