Adesso va di moda. Ma fino a qualche anno fa, guai solo a pensarci. Perché il miglior calcio del mondo si giocava qui. In Italia. Gli stranieri dai piedi più educati, quelli più geniali sceglievano lo Stivale come loro prato. Da Maradona a Platini passando per Zico, Zidane, Van Basten, Seedorf e tanti altri. Inghilterra, Spagna e Cina ci guardavano pieni d’invidia. Poi, però, qualcosa è successo. Il Bel Paese ha perso attrattiva (troppe tasse) e i campioni hanno deciso di cambiare le proprie rotte. Non solo quelli che corrono in campo, ma anche quelli che siedono in panchina. Gli allenatori. Fabio Capello in Cina insieme a Marcello Lippi e Alberto Zaccheroni, Claudio Ranieri oggi in Francia, ma fino a pochi mesi fa incoronato re d’Inghilterra dopo l’impresa con il Leicester. Carlo Ancelotti campione con il Psg, poi con il Real e ora con il Bayern Monaco; Antonio Conte che ha conquistato la Premier. E poi ancora Francesco Guidolin in Galles con il Swansea, Cristian Panucci nuovo CT dell’Albania al posto di Giovanni De Biasi e via con un elenco che non finisce mai. Facile oggi. Impossibile da pensare ieri. Eppure uno dei primissimi italiani ad espatriare è stato un riminese.
Non doc, perché è nato a Forlì, ma d’adozione: Roberto Landi. Ha fatto le valigie, è salito su un aereo, ed è volato dall’altra parte dell’Oceano per iniziare un’avventura a Stelle e Strisce. Del resto è sempre stato un precursore con le idee ben chiare. Nato il 20 febbraio 1956, appena ha visto un pallone lo ha preso con le mani facendo capire a tutti quale sarebbe stato il suo ruolo: sotto una traversa, in mezzo a due pali. Dopo aver vestito le maglie di Piacenza, Ravenna, Modena e Siena nel 1979 chiude le sue valigie e vola in America per approdare nella North American Soccer League dove difende la porta del Vancouver.
“Era il maggio del 1979 – ricorda – e l’ex stella della Juventus, Morini, mi chiese se avessi voglia di provare questa nuova avventura. Dopo averci pensato un po’ su dissi subito di sì. L’idea di andare in un altro paese, vivere una cultura diversa, respirare un’aria lontana da quella italiana mi ha subito affascinato. E devo dire che scelta migliore non la potei fare perché lì, in quegli anni ho capito quanto sia fondamentale aprire la propria mente non fossilizzandosi su quello che si ha o si crede di avere”.
Ancora una stagione indossando la maglia dei Chicago Sting poi una nuova avventura, questa volta in Sud Africa, con la casacca del Kaizer Chiefs. Un’annata e il ritorno negli Stati Uniti con i New York Cosmos di cui diventa anche dirigente dopo la chiusura della NASL.
Rientrato in Italia gioca con Cervia, Morciano per chiudere la carriera nell’Ospedaletto. L’America, però, rimane nel suo cuore tanto da tornarci come preparatore dei portieri della Nazionale durante i campionati del Mondo del 1990 e del 1994. Poi inizia la sua avventura vera e propria come allenatore: nel 1998 lo chiama la Georgia di Kakha Kaladze (stella del Milan), due anni dopo è la volta dell’U21 della Lituania. Nel 2003 ottiene la UEFA Pro Licence e due anni dopo è sulla panchina del National Bucarest che lascia per diventare il tecnico della Nazionale del Qatar impegnata nelle qualificazioni per le Olimpiadi di Pechino. Nel 2006 altra avventura nel Sopron (serie A ungherese), poi Livingston (squadra della Scottish First scozzese) e Union St.Gilloise (Belgio). Nel 2011 gli arriva una telefonata dalla Federazione della Liberia, la guerra, però, lo costringe a rientrare in Italia. Insomma, un vero e proprio allenatore giramondo.
“Ogni paese che ho avuto la fortuna di vivere, ogni città, ogni comunità mi ha lasciato qualcosa che è andata a riempire il mio bagaglio culturale e sportivo. Durante l’esperienza in Belgio, per esempio, ho apprezzato la meticolosità degli allenamenti, durante la stagione in Scozia ho capito che cosa sia davvero il fair play, lavorando al fianco di un preparatore atletico tedesco ho avuto modo di sperimentare la metodologia degli allenamenti e capire perché i tedeschi hanno questo strapotere fisico. Anche l’esperienza in Liberia è stata fantastica, interrotta purtroppo dalla guerra. Ma se mi chiedete qual è la nazione che più mi ha stupito è sicuramente l’Islanda. Non è un caso che sia stata la squadra rivelazione dell’ultimo Europeo. Hanno costruito un laboratorio tecnico tattico fantastico. Fateci caso, tutte le nazioni avanzano e noi, invece, restiamo fermi lì. E non è perché abbiamo perso il nostro appeal. Il fatto è che noi ci professiamo sempre come i migliori ma siamo rimasti indietro e soprattutto negli ultimi anni stiamo perdendo terreno nei confronti dei vari paesi esteri.
Abbiamo la presunzione di avere la conoscenza assoluta del calcio, ma in realtà quando usciamo dai confini nazionali, puntualmente fatichiamo e questo è sintomo che negli altri paesi c’è stata un’evoluzione, da noi no. All’estero manca la sagacia tattica e di questo forse noi ne siamo maestri, ma io sono partito dal nostro paese con delle convinzioni e dei credo e ho modificato almeno 7-8 volte la mia filosofia sportiva nel corso degli anni. Quindi, se posso permettermi di dare un consiglio, dico a tutti i nostri giovani ragazzi, andate all’estero e guardate come si vive il calcio”.
Francesco Barone