Se nel 2019, in epoca pre pandemia, la provincia di Rimini ha perso, unica in regione, tre mila occupati, penalizzando, soprattutto, giovani e donne, il cui tasso di occupazione è tornato a scendere, è davvero difficile attendersi che l’anno in corso si possa chiudere meglio.
Solo nel periodo gennaio-maggio 2020, rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, la Camera di Commercio della Romagna calcola, per Rimini, una riduzione delle attivazioni di nuovi contratti del 49%.
Tra marzo e maggio, l’Agenzia regionale per il lavoro rende noto che su 38mila posizioni dipendenti perdute in Emilia Romagna, vuol dire che le cessazioni hanno superato le attivazioni di nuovi contratti, 7mila sono di Rimini, dove si fa sentire l’impatto del virus nel turismo. Impatto che nei mesi successivi pare abbia però colpito più la componente estera che locale del lavoro stagionale.
Siccome, come spesso si sente ripetere, le crisi contengono anche delle opportunità, chissà che questa non sia l’occasione per ripensare il nostro mercato del lavoro, che presenta più di una criticità. E non da poco.
Perché dopo la capacità di creare posti, come abbiamo visto non da primato, c’è tutto il discorso che riguarda la qualità dei lavori che sono offerti, piuttosto deficitaria.
Per analizzare la situazione prendiamo gli ultimi dati dell’Agenzia regionale del lavoro, che si riferiscono all’attivazione di rapporti di lavoro dipendente nell’anno 2019. Rapporti, si badi bene, che non sono nuovi posti, ma nuovi contratti, per cui una persona può averne, brevi, più d’uno durante l’anno.
Nel 2019, su 95mila rapporti attivati in provincia di Rimini, all’incirca gli stessi dell’anno prima, di cui 41mila nel comune capoluogo, solo l’8.5 per cento hanno riguardato professioni intellettuali, scientifiche e di elevata specializzazione e il 4.8 per cento profili tecnici, quando a Modena, per fare un paragone, i contratti riguardanti gli stessi gruppi professionali sono stati il 14.6 e dell’8.6 per cento. Praticamente il doppio di Rimini.
Questo vuol dire che in provincia di Rimini, per stare al passo con Modena, cioè raggiungere le stesse percentuali, la domanda di contratti per professioni di elevata specializzazione dovrebbe salire dalle attuali 8mila a 14mila unità, quindi 6mila in più, mentre le attivazioni di contratti per professioni tecniche dovrebbero passare da 4.6 mila ad almeno 8mila, con una differenza di 3.5 mila.
In totale sono quasi dieci mila contratti per lavori ben qualificati, quindi anche meglio pagati, che mancano e andrebbero rivendicati. Se aggiungiamo anche il minor numero dei conduttori d’impianti, il deficit di buone occasioni d’impiego sale ulteriormente.
Con percentuali e cifre leggermente diverse, gli stessi ritardi si riscontrano anche nelle province di Forlì-Cesena e Ravenna. Il problema non è quindi solo riminese, ma quanto meno romagnolo.
Una conferma di questo ritardo, che si traduce in minori opportunità d’impiego, arriva anche da fonte Inps, che registra, questa volta, le persone assunte: perché a fronte del 3.8 per cento di lavoratori inquadrati come quadri e dirigenti a Modena (e 4 per cento a Bologna), a Rimini si è appena sopra l’uno per cento, con Forlì-Cesena e Ravenna attestate sul 2 per cento. Esattamente la metà, e anche meno.
Insomma, è del tutto evidente che Rimini e la Romagna, per come è conformata la loro economia, offrono posti di lavoro di minore qualificazione, rispetto alle maggiori province emiliane.
Deficit che si traduce in retribuzioni medie annue di 16mila euro a Rimini, 20mila euro a Forlì-Cesena e 21mila euro a Ravenna, che salgono, non è un caso, a 25mila euro a Modena e 26mila a Bologna (fonte Inps).
Vuol dire che tra Rimini e Bologna c’è una distanza salariale, in meno, di 10mila euro l’anno. Non proprio marginale. Un dato che certamente va messo in relazione con un diminuito numero di giornate lavorative l’anno, per via della stagionalità del turismo. Ma non cambia la sostanza di minori introiti. Non per scelta degli interessati ma per carenza di altre opportunità.