Il vero campione? Deve saper ascoltare. Potresti immaginarti una risposta diversa dal coach che ha cresciuto sotto canestro migliaia di giovani riminesi, tra cui campioni di portata nazionale come Carlton Myers ed il compianto Luciano Vendemini. Potresti aspettarti una battuta sulla stazza fisica, la prontezza di riflessi, la velocità, l’agilità. Invece no. Al primo posto il “Prof” mette l’ascolto, l’umiltà, perché “solo così si può continuare a migliorare”. Fino a scalare i più difficili parquet da protagonisti. Il Prof. Gian Luigi Rinaldi, in 52 anni di formazione con i giovani da coach dei “granchi” e in 41 anni da professore nelle scuole, ha sempre amato definirsi un “insegnante di valori e di vita oltre che di sport”. E gli ex allievi che ha cresciuto, per tre diverse generazioni, ancora lo fermano per strada. “Mi raccontano che giocano ancora o che hanno i figli ancora impegnati sul campo. Nel breve tragitto da casa a qui – ci racconta orgoglioso una volta entrato in redazione, dopo una delle lunghe camminate che ancora si concede alla bellezza di 83 anni – mi avranno fermato in cinque”.
Prof., lei ha cresciuto con passione e rigore numerosi atleti: qual è l’identikit del vero campione?
“È quello che non si monta mai la testa e segue le direttive dell’allenatore. Chi sa ascoltare, migliora subito”.
In queste tre generazioni che ha cresciuto, come sono cambiati i tempi?
“Devo dire che i ragazzi seguono le direttive. Bisogna però saperli prendere”.
Lei come cercava di farlo?
“Usando il bastone e la carota. Tiravo un urlo ma in genere quando i ragazzi sanno che l’istruttore dà indicazioni per il loro bene, seguono. I ragazzi mi volevano bene e anche i genitori hanno sempre apprezzato la mia attività di educatore”.
A proposito di genitori, qual è l’insegnamento che invece ha voluto impartire a loro?
“Il rispetto. All’inizio di ogni stagione mi raccomandavo sempre con loro: «quando inizieranno le partite, applaudite anche gli avversari e non trovate da dire con i genitori dell’altra squadra!»”.
Lei ha scoperto anche campioni come il grande Luciano Vendemini, purtroppo scomparso a soli 24 anni.
“Mi ricordo ancora benissimo di Luciano. Pochi giorni fa (il 20 febbraio, ndr.) è stato il 40° anniversario della sua morte. Lo porto sempre nel cuore. Ricordo che, nel 1967, eravamo alla ricerca di giocatori alti. Non era facile trovarne. Quando a scuola me ne capitava qualcuno, lo invitavo subito a giocare a pallacanestro. Allora abitavo in via Saffi, aperta campagna. Vedevo passare spesso un contadino che veniva giù da Covignano. Passava con la sua moto, era alto più di 2 metri. Mi chiesi se avesse dei figli altrettanto alti. Il parroco di Covignano mi disse che aveva tre figli maschi, ma che uno solo era molto alto, ma anche molto timido. Aveva smesso di andare a scuola e lavorava nei campi. Era molto riservato, ma era veramente un bravo ragazzo. Andai a trovare questa famiglia. Luciano aveva 15 anni, era alto 1 metro e 98. Proposi alla madre di allenarlo gratuitamente con le nostre squadre. Allora ci allenavamo nel tardo pomeriggio, in piazza Malatesta. La madre mi rispose di non farcela a portarlo e venire a prendere. Per risolvere il problema cercai nelle scuole altri ragazzi per poter fare una squadra in cui crescere anche Luciano”.
E come andò?
“Non fu facile all’inizio, faceva fatica. Chi gioca a pallacanestro deve avere sensibilità nelle mani, lui aveva dei grossi calli per via del lavoro nei campi. Ma aveva una gran voglia di imparare. A fine anni ’60 con la società organizzavamo dei tornei estivi al mare con squadre di serie A. Tra le più assidue c’era la prima squadra di Cantù che ci dava una mano a patto che noi gli dessimo in cambio un giocatore promettente ogni anno. Gli passammo Luciano che, arrivato a Cantù, terminò anche gli studi. Purtroppo morì nel 1977 per un improvviso malore al Palasport di Forlì durante il prepartita della gara con Torino”.
Tra i campioni che ha allenato c’è anche Myers. Di lui che ricordi ha?
“Carlton era il contrario di Luciano, caratterialmente. Conoscevo molto bene la mamma. Un giorno mi fermò e mi disse: «Gian Luigi io vorrei mandare da te il mio Carlton». Aveva 7 anni. A 15-16 anni ha cominciato a svilupparsi come atleta superiore a tutti gli altri, diventato il grande campione che tutti conosciamo. Vederlo portabandiera dell’Italia alle Olimpiadi di Sydney nel 2000 è stato per me un grande onore”.
Aveva intuito subito le sue potenzialità?
“Avevo intuito che avrebbe potuto diventare un grande atleta in qualunque attività sportiva, anche atletica e pallavolo. Io sono arrivato prima di altri e lui si è innamorato della pallacanestro”.
Lo sport nel mondo scolastico è sempre stato relegato ad un ruolo minore. Lei questo come l’ha vissuto?
“A scuola non ci sono i fondi. Io lavoravo molte volte con i palloni e le attrezzature che mi passava la Federazione. Ricordo i miei studenti quando dovevano venire in palestra. Correvano giù per le scale e si cambiavano in fretta per arrivare per primi. I miei colleghi mi dicevano: «Rinaldi, guarda, quei ragazzi corrono per le scale!». Io rispondevo: «Che devo fare? Se corressero per venire da te a fare matematica, tu li sgrideresti?»”.
Come responsabile provinciale della Federazione Pallacanestro ha voluto puntare molto sui giovani, anche fuori Rimini.
“Sì, ho aiutato le società di Riccione, Morciano, Santarcangelo. Piano piano ogni città ha costituito il suo settore giovanile. Io ho sempre stimolato le prime squadre a puntare sui giovani, perché solo così si poteva garantire un sufficiente ricambio generazionale. Noi, a Rimini, abbiamo avuto qualcuno che all’inizio ci ha aiutato. Siamo riusciti ad arrivare in serie B dalla C. Qualche altra società si accontenta di avere una prima squadra brava, ma non coltiva i ragazzi”.
Alessandra Leardini