Si dice che nulla sia per sempre. E molto spesso la storia lo conferma. Lo sport riminese lo sta provando sulla propria pelle. Dopo 38 anni di successi, infatti, saluta Mike Romano, una leggenda del baseball italiano ed europeo. La prossima stagione, iron Mike, sarà il manager del Novara. E così Rimini perde una delle sue colonne portanti. Un mix di esperienza, capacità tecniche e umanità difficilmente rimpiazzabili.
Con il “baffo” abbiamo ripercorso la sua lunga carriera vissuta in riva all’Adriatico, da giocatore prima, da allenatore poi.
“Non sono nato in questa città, ma sono riminese. Non si sente dalla pronuncia? (ride con il suo slang tutto particolare). Sono un romagnolo doc, parole d’ordine: sangiovese e tagliatelle. A parte gli scherzi: Rimini mi piace, qui sono diventato un uomo. Quando sono arrivato ero un bambino, sono cresciuto da solo in questa realtà”.
Correva l’anno 1973 ed un giovanissimo ragazzo di nome Patrick Cardinali arrivò a Rimini…
“Chi è Patrick Cardinali? (e giù un’altra risata). Tutto ebbe inizio quando il mio allenatore del college, Di Bernardo, mi invitò a giocare nel Rimini. Quell’anno era lui il manager dei romagnoli e stavano cercavano giocatori dal cognome italiano. Diedi subito la mia disponibilità, ma avevo problemi con il passaporto. Per risolvere questa situazione cambiarono il mio nome. Arrivato in Italia ero Mike Fabbri, poi il noto Patrick Cardinali”.
Da giovanissimo si è ritrovato solo in una città sconosciuta. L’impatto è stato difficile?
“Sì, anche se comunque sono partito molto sereno. I miei genitori, infatti, non avevano opposto resistenza. Il problema è stata la lingua, non parlavo l’italiano e quando sono atterrato a Milano persi l’aereo per Bologna. Fui costretto a prendere il treno ma per arrivarci fu molto difficile perchè non riuscivo a farmi capire. Diciamo che il viaggio d’andata per Rimini fu un vero trauma”.
Ricorda il suo primo incontro con Zangheri?
“Come no! Arrivai verso le 23 e mi portarono a casa di uno dei due vice presidenti. Cenai con addosso gli occhi di una ventina di persone. Tra loro uno mio compagno di squadra che disse stizzito: <+cors>questo è un bidone<+testo_band>. L’aneddoto me lo raccontarono una decina di anni più tardi. A distanza di 20 anni da quella cena l’ho preso sotto braccio dicendogli: allora, chi era il bidone? (e via a ridere)”.
Al suo primo campionato si rese subito protagonista di una partita memorabile. Roma-Rimini, terminata 7-3 per i laziali. Lei lanciò 18 inning, subendo 6 valide e collezionando 20 strike out.
“Ricordo quel match come se fosse ieri. Dopo il nono inning lanciai molto meglio che a inizio gara. L’allenatore continuava a dirmi che dovevo smettere e che mi avrebbe sostituito. E io non capivo il perché: avevo 20 anni, a quell’età non si può essere stanchi”.
Tra il 1974 e il 1976 è passato dalla tristezza alla gloria: che ricordo ha di quel periodo?
“Nel ’74 mi squalificarono per la questione del passaporto. Rimasi in Italia per aiutare la squadra durante gli allenamenti. Cercai di rendermi comunque utile. L’anno seguente arrivò il primo scudetto della storia dei Pirati: Rimini era in serie A da appena tre stagioni e aveva già vinto il campionato. Nel ’76 conquistammo anche la coppa Campioni”.
Nel frattempo era anche diventato il terrore di tutti i battitori. Quale era il suo segreto sul monte?
“Avere un avversario nel box per me è sempre stata la sfida più grande. Io lanciavo solo per lasciarli al piatto, quello che poteva accadere di diverso non mi interessava. Sparavo palle dritte e mi chiedevano se conoscessi solo quel tipo di lancio, invitandomi a provare altri effetti. Ma io non ne volevo sapere”.
Quali avversari temeva di più?
“Tra gli italiani Giorgio Castelli e Roberto Bianchi. Con quest’ultimo sono stato più fortunato: nel periodo in cui cambiai la tecnica di lancio (scagliando la palla con il metodo del sottomarino) lui si spostava dal piatto di casa base scappando. Tra gli stranieri nomino John Cortese”.
Negli anni ’80 approdarono a Rimini dei “curiosi” personaggi. Ci descriva qualcuno di loro.
“Uno dei più strani era Tommy Martinez: fortissimo giocatore, ma anche un pazzo incredibile, non aveva tutte le rotelle a posto. Un altro era David Malpeso. Cito anche Eddy Orrizzi, che non era pazzo, ma ricordo che i primi allenamenti li fece scalzo anche se pioveva. Tutti atleti che, comunque, sono stati determinanti per le vittorie ottenute in quegli anni”.
Le è mai capitato qualcosa di strano?
“Una volta sul monte c’era il nostro compagno di squadra Michael Pagnozzi. Uno dei suoi lanci venne battuto in foul ball con la palla che non fu recuperata. L’arbitro si dimenticò di consegnargliene una nuova ma fece riprendere comunque il gioco. A quel punto il nostro lanciatore prese il sacchetto di resina, posizionato vicino alla pedana di lancio e tirò quello al posto della pallina”.
Da giocatore ha vinto l’enormità di 7 scudetti e tre coppe Campioni. Cosa ha reso Rimini una delle città più vincenti nella storia del baseball europeo?
“Una squadra unita fa sempre la differenza, dato che riesce comunque a superare anche i piccoli problemi che si possono incontrare nel corso di una stagione”.
Anche da allenatore ha condotto i Pirati alla conquista di quattro scudetti, due coppa Italia, vincendo anche il campionato di IBL2 proprio quest’anno. Quale di questi trionfi l’ha emozionata di più?
“Lo scudetto con la franchigia del Riccione è stata una bella emozione. Ad ogni modo il Tricolore del 2006 è stato bellissimo, anche perché inaspettato. Una volta raggiunti sorprendentemente i play off i giocatori cambiarono completamente mentalità rispetto alla regular season”.
Da quel 2006 la Telemarket non ha più vinto nulla. Come se lo spiega?
“È difficile da capire. Sul mercato abbiamo sempre cercato di acquistare i giocatori stranieri migliori, ma qualcosa è sempre andato storto. La gente pensa che chi viene a Rimini a giocare poi si perda tra discoteche, pub e divertimenti vari. Questo, però, non influisce. Anche ai miei tempi ci divertivamo rientrando a casa alla mattina, ma poi si dormiva e al risveglio ci allenavamo tranquillamente”.
Dopo 38 anni di successi con i colori neroarancio, quanto le dispiace lasciare Rimini?
“Moltissimo. Ringrazio Zangheri per tutto quello che abbiamo vissuto insieme, adesso però vado per un’altra strada. Mi mancheranno i tifosi. Quando tornerò da avversario spero di vedere uno stadio pieno”.
Per lei ora inizia una nuova avventura in quel di Novara. Perché ha scelto di allenare i piemontesi?
“Durante le festività natalizie ho avviato i primi contatti con la società piemontese e abbiamo presto trovato l’accordo. Parlando con dirigenti e collaboratori è risultato evidente quanto abbiano chiaro l’obiettivo di migliorarsi sotto ogni aspetto. Sono contentissimo della mia scelta: prima di tutto perché è una società dalla storia significativa; inoltre posso guidare una formazione che vuole crescere. Alla mia età, per me, è una nuova avventura: come quando, anni fa, mi sono trasferito in Italia proveniente dall’America”.
Matteo Petrucci