Leggere un volume sulla storia di Rimini è una occasione preziosa per ragionare sulla città uscendo dalla cronaca e guardando ad un periodo più lungo, provando ad individuare alcuni tratti di fondo che caratterizzano la città, ma dei quali troppo spesso ci dimentichiamo.
Rimini nel secondo dopoguerra, dopo la grande distruzione, ha conosciuto uno straordinario sviluppo, in linea con la crescita dell’Italia del nord e della Regione Emilia-Romagna.
In particolare, a Rimini, in accordo con la strategia di politica riformista del Pci di Togliatti per l’Emilia-Romagna, l’Amministrazione comunale cerca di promuovere e di assecondare lo sviluppo economico.
I pilastri della crescita sono la ricostruzione, con relativo aumento della popolazione, e il turismo.
A Rimini cresce in maniera vertiginosa la popolazione: nel 1951 ci sono 70.000 residenti, nel 1961 sono 93.000, nel 1971 arrivano a 118.000.
La superficie urbanizzata passa da 750 ettari nel ‘51 a 1.200 nel ’61 e arriva a 2.000 ettari nel ’71.
Le presenze turistiche passano da 3.7 milioni nel ‘51 a 4.8 nel ‘61 ed infine a 5.9 milioni nel 1971.
Questa crescita vertiginosa è però priva di una rigorosa pianificazione urbanistica, come del resto accade quasi in tutta l’Italia, in quel periodo.
Il Primo PRG è del 1962, redatto dall’ingegnere capo comunale, non certamente un piano strategico.
Manca un sistema di fognature, un depuratore, strade adeguate e persino un ospedale efficiente.
Nasce quindi l’esigenza del governo dell’urbanistica. Esigenza che emergeva anche dal dibattito nazionale, infatti la famosa legge Sullo è approvata nel ’62, anche se la radicale riforma immaginata dal Ministro democristiano non andrà mai in porto.
Vengono chiamati a Rimini alcuni dei migliori urbanisti italiani.
Giuseppe Campos Venuti redige un piano che verrà adottato nel 1965, ma approvato solo nel ’75.
Giancarlo De Carlo, viene chiamato per lavorare al Piano del centro storico, Piano adottato nel ’72, ma revocato nel ’75, con la stessa delibera che approva ed in parte corregge il PRG di Campos Venuti.
A proposito di quella stagione Fabio Tomasetti scrive, proprio in un libro su De Carlo, di “occasioni mancate”.
Sono anni che segnano il destino di Rimini, anche rispetto agli insuccessi di Campos Venuti e soprattutto di De Carlo che pure aveva prodotto un piano ricco di suggestioni e altrettanto importante per il metodo della partecipazione.
Nella prima fase della ricostruzione si afferma un modello in cui da un lato c’è una sorta di mano libera nell’economia, e nella stessa urbanistica, dall’altro c’è il decisionismo per quanto concerne il controllo della macchina pubblica, in mano a chi governa la città.
Del resto a Rimini sembra prevalere un sistema di tipo “mezzadrile” tipico delle campagne prive di latifondi, sistema che si adatta bene alla gestione delle piccole pensioni a conduzione famigliare in cui tutti lavorano al “fondo”, che però rimane piccolo e indiviso.
Questo modello è in antitesi, ad esempio, con il modello “bracciantile” che domina a Ravenna e favorisce la nascita delle grandi cooperative.
Da noi crescono gli alberghi nel numero, ma non si affermano mai grandi strutture a conduzione manageriale.
Il modello dell’urbanistica che decide, nella sostanza rimane sulla carta.
Il tema delle criticità e delle opportunità di Rimini torna molte volte a porsi, è quasi un dibattito ciclico. Va sempre ricordato che Rimini è divenuta, quasi dal nulla, “la capitale europea del turismo” e che ha realizzato infrastrutture importantissime.
Dalla ricostruzione in poi Rimini è stata in grado di realizzare una Fiera che è tra le prime in Italia, un sistema turistico con milioni di presenze, un Palacongressi, una metropolitana di costa, un grattacielo, una cittadella universitaria, una darsena, un teatro ricostruito dalle macerie e molto altro ancora.
Eppure, è come se la città vivesse una contraddizione che non riesce a risolvere.
Del resto, proprio Stefano Pivato, nel già citato libro su De Carlo, parla delle contraddizioni quali segno distintivo di Rimini.
Quando Rimini diventa Provincia e quindi anche istituzionalmente gli orizzonti si allargano, si pone con decisione il tema di quale sviluppo sia opportuno avere, si individuano come centrali le questioni della qualità e della sostenibilità.
Ad esempio, nella relazione generale del Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale del 2007 si dice “Il declino della domanda turistica tradizionale costituisce una seria minaccia di perdita di competitività dell’intero sistema turistico locale, che su questa domanda è cresciuto e che ancora è in larga parte ad esso orientato. Il duplice rischio che a ciò si accompagna è quello della maggiore difficoltà ad imporsi come provincia innovativa, nonostante gli sforzi che in questa direzione sono stati fatti, e quello di uno scarso riconoscimento del ruolo di leader in campo turistico, nonostante la consistenza e la tradizione del sistema turistico locale”.
Circa venti anni dopo ci confrontiamo ancora con gli stessi problemi e con alcuni dati che raccontano di un’economia con uno scarso indice di innovazione, nonostante alcune eccellenti eccezioni. Il numero di addetti per impresa è tra i più bassi in Emilia-Romagna e la stessa cosa si può dire guardando sia agli investimenti attuati direttamente dalle imprese, sia in relazione ai finanziamenti pubblici ricevuti. È un sistema coerente con le caratteristiche dell’imprenditoria mezzadrile, prevale perciò scarsa propensione agli investimenti e all’innovazione.
Il pubblico ha provato a fare la propria parte, ma non sempre l’obiettivo di agire da moltiplicatore degli investimenti e delle trasformazioni urbane è riuscito.
Apro una parentesi. La pianificazione del territorio al di là delle parole non sembra essere al centro dell’attenzione. Oggi in Emilia-Romagna i comuni hanno l’obbligo di approvare i piani urbani generali, ai sensi della legge urbanistica della Regione del 2017. Pochi sono i comuni che finora si sono adeguati, appena 9 su oltre 420, nessuno per ora in Provincia di Rimini, solo Misano Adriatico è arrivato all’adozione. Segno evidente di un significativo disinteresse.
Tornando alle questioni accennate, si possono richiamare alcuni possibili scenari di trasformazioni urbane.
Certamente, c’è la questione delle colonie. Non si è stati in grado, in tanti anni, di pensare e avviarne la trasformazione in qualche cosa di diverso da ciò che erano e quindi realizzare progetti nuovi, come un sistema turistico all’avanguardia avrebbe dovuto fare.
Certo ci sono difficoltà oggettive e hanno pesato i vincoli della Soprintendenza, ma credo che un progetto accurato che prevedesse usi pubblici rilevanti avrebbe potuto superare lo scoglio dei funzionari del ministero dei beni culturali.
Abbiamo a Rimini diverse facoltà e molti corsi di laurea, l’arrivo dell’università ha cambiato l’aspetto del centro storico, ma le sedi sono sparse per la città, le aule sono sempre troppo poche e talvolta scomode. Una programmazione diversa avrebbe potuto immaginare un campus anche riattivando il patrimonio delle colonie o qualche hotel dismesso, solo per fare un’ipotesi tra le tante.
Anche la ricostruzione del teatro “com’era e dove era” ha premiato un sentimento piuttosto diffuso in città di conservazione. Abbiamo così un teatro piccolo e talvolta non adeguato che forse potrebbe avere una stagione teatrale più di rilievo. Rimaniamo, invece, chiusi nei nostri confini senza provare qualcosa di nuovo e di più ambizioso.
Accenno solo di sfuggita la questione dell’anfiteatro. Possibile che non si possa trovare una soluzione che recuperi una preziosa struttura dell’antica Rimini, senza penalizzare in alcun modo l’Asilo Italo Svizzero?
Certo la riqualificazione di Piazza Malatesta e il sistema museale che le ruota intorno può essere citato come un intervento virtuoso che però ha bisogno ancora di dispiegare tutti i possibili effetti positivi.
Il Parco del Mare è una innovazione consistente, ma non si è raccordata con la riqualificazione dell’iniziativa privata, la ristorazione e soprattutto il commercio.
Tralascio la questione della spiaggia, per le note ragioni delle proroghe e dei rinvii nell’applicazione della Bolkestein.
Un discorso a parte meriterebbe il turismo, guardare i dati anno per anno non è particolarmente utile. Bisognerebbe cogliere un fenomeno più strutturale che è la perdita di alberghi, almeno 500 hanno chiuso (erano 1640 nel 1976, 1580 nel 1980, 1050 nel 2021), c’erano 41.227 camere nel 1998, sono 34.993 nel 2021. Il periodo medio di soggiorno è passato da 5.9 giorni a 4.5 nel 2021. I pernottamenti 7.8 milioni nel 2000 e 7.5 milioni nel 2019, poi 6.5 milioni nel 2022.
È evidente che si impone la necessità di una politica di lungo respiro che abbia una prospettiva di rilancio per non occuparsi soltanto delle piccole cose quotidiane.
Soprattutto, però, ciò che occorre è una visione d’insieme capace di affrontare le questioni critiche che riguardano il turismo. È chiaro che l’offerta è superiore, ed in parte inadeguata, alla domanda.
Il turismo è cambiato, i soggiorni per lunghi periodi non esistono più. Domina il mordi e fuggi. Occorre un’offerta diversa, anche perché i lunghi e faticosi viaggi per venire a Rimini sono ormai un fattore critico e ambientalmente insostenibile.
Giuseppe Chicchi nel 1990 descrive Rimini come una “una città in bilico che deve ancora scegliere se essere località di provincia o capitale di qualche cosa”, arrivati a questo punto dovremmo decidere.
Dovrebbe essere seguito il metodo che abbiamo sperimentato negli ultimi anni con l’esperienza del piano strategico. Guardando al futuro mi pare che il lavoro da fare sia quello della condivisione degli obiettivi, facendo in modo che le trasformazioni urbane siano condivise con i portatori di interesse e con i cittadini, avendo in mente un disegno complessivo che non riguardi solo alcune parti della città, ma l’insieme del contesto urbano, centro, mare e periferie, assumendo come prioritarie le esigenze delle persone e dei più fragili in particolare.
Questi sono i temi complessi che una classe dirigente dovrebbe porsi e non parlo solo del ruolo della pubblica amministrazione.
Forse proprio il tema delle periferie e dei marginali è la questione cruciale sulla quale occorre confrontarci e porre l’attenzione.
Troppi sono i settori della società che si sentono abbandonati al proprio destino e quindi rischia di moltiplicarsi il disagio sociale che cresce all’interno della città.
Disagio che non sempre è visibile e non sempre è percepito, ma emerge nelle desolazioni di alcuni angoli o nelle morti, nelle baracche improvvisate, degli invisibili. Le città dovrebbero essere luoghi ospitali e accoglienti e di questo concretamente l’urbanistica dovrebbe occuparsi, non delle singole parti o dei grandi progetti da realizzare.
Quindi, concludo con una citazione: “il successo di una città, dunque, non può essere misurato in termini di crescita finanziaria o in base alle fette di mercato che può essere riuscita a conquistare e neppure in base al ruolo da essa ricoperto in quell’inesplicabile fenomeno del nostro tempo costituito dal processo di globalizzazione, ma dipende piuttosto dalla forza intrinseca del suo tessuto e dall’accessibilità di questo tessuto per le forze sociali che plasmano la vita dei suoi abitanti”( Joseph Rykwert, La seduzione del luogo, Einaudi, 2000).
Alberto Rossini