Abbiamo incontrato persone che nonostante la Carta di Soggiorno con scadenza illimitata o con la cittadinanza italiana, avevano perso la residenza, non avevano più il medico di base e avevano bisogno di cure perché debilitate dal vivere in strada. Non è facile fare i conti con la propria situazione di senza fissa dimora, ammettere i propri fallimenti, i tentativi non riusciti per risalire la china, ricordare gli agi di un tempo. L’alcool anestetizza, aiuta a dimenticare, a non pensarci, altrimenti, come mi ha rivelato un amico, rischi di impazzire. Cerchi di trovare un tuo equilibrio, di individuare i tuoi luoghi, le tue relazioni e, come un lupo solitario, difendi il tuo territorio, lo spazio conquistato, il bar che ti accetta e ti permette di utilizzare i servizi.
Ma una cosa è incontrarsi in Caritas, e parlare seduti intorno al tavolo, e un’altra è andare per strada con loro, passarci una notte e vedere. Così sono andato a vedere.
La vita di strada abbruttisce. La lotta per la vita quotidiana abbruttisce. Ogni giorno devi tirare fuori le unghie. Un detto dice Mors tua vita mea, quanto è veritiero in queste esistenze. I nervi sono sempre a fior di pelle, basta una risposta meno cordiale per provocare la reazione. Eppure ci si aiuta, certo si selezionano le persone, si evitano quelle che il bere rende troppo moleste o violente, ci si scambiano consigli, orari dei servizi, luoghi dove poter andare a dormire. Si formano piccole comunità notturne.
Durante il giorno ognuno batte il suo territorio per ritrovarsi la sera per condividere, prima di dormire, la raccolta della giornata: qualcosa da mangiare, le sigarette, e… il bere non manca mai. Forse perché la notte è lunga e silenziosa e, in quel silenzio, si levano voci che è meglio mettere a tacere. Forse perché di notte, sfruttando il sonno, c’è chi ne può approfittare. L’unione fa la forza ed è di notte che si è più deboli, che si mostra il fianco, è durante la notte che questa vita rivela tutta la sua fragilità. Meglio stare uniti. Molti, troppi non ci sono più. Sono morti prematuramente. Gran parte li ha presi la cirrosi epatica. Ognuno ha lasciato il soprannome o un aneddoto come eredità. Si coltivano sogni, desideri e speranze: Quando avrò la casa. Quando avrò il lavoro. Li osservo e penso a quanto sono lontani dagli standard che questa società chiede e si aspetta. Quale lavoro potrà risultare compatibile a questa fetta di umanità?
Una giornata da Gigi
Ho conosciuto Gigi sin dai primi mesi del mio incarico in Caritas. Inizialmente mi ha provocato, voleva capire se si poteva fidare. È nato un dialogo, un confronto. Gli avevo chiesto se potevo passare una giornata con lui. Mi ha guardato stupito, mi ha risposto che ne avrei dovute passare almeno due, una in estate e una in inverno. Ho accettato. La mattina del nostro incontro ero curioso e agitato, non sapevo fino in fondo cosa avrei vissuto. L’appuntamento alle 8.30 in un parcheggio di una periferia urbana, sociale, umana. In questo parcheggio un vecchissimo e piccolo camper prestato da un amico e accettato di buon grado dalla proprietà del piazzale. Tutto è precario. Da subito mi hanno colpito il decoro e la pulizia, per quanto possibile, di quel luogo. Quando sono arrivato ancora dormiva. In pochi minuti era con me.
Prima tappa il bar per la colazione e i servizi. Mi comunica che mangeremo alle 12.30 dalle suore, la Caritas la conosco. Per riempire quel tempo prendiamo l’autobus alla volta di un grande supermercato per acquistare la prima Moretti della giornata. Questo viaggio permette di passare tempo al fresco e di risparmiare qualche centesimo nella birra comprata, fuori frigo.
Mentre vidimo il biglietto mi apostrofa che sto barando. Ci guardiamo e, mentre mi racconta del buon rapporto con i controllori, penso al fatto che io, nel borsellino, ho soldi, documenti, bancomat e carta di credito. Se decido di tornare a casa lo posso fare quando voglio. Sì, sto barando. Ma baro a fin di bene, per capire, conoscere, relazionarmi, condividere. Non sarò certo io a cambiare il mondo, ma il mio pezzo di umanità me la voglio giocare fino in fondo.
Incontriamo un suo amico, gli offre un lavoro nelle sere della settimana di Ferragosto, 20 euro a sera. Accetta. Ci confrontiamo sulle morti di Foggia. “Io non accetterei mai di lavorare tante ore per così poco”, mi dice e continua affermando che se tutti si rifiutassero sarebbero costretti, per non far marcire i pomodori, a pagare di più. Arriviamo dalle suore qualche minuto prima. Ci sono già una decina di persone. Esce una suora. Ci conta. “Non so se ce n’è abbastanza per tutti”, dichiara. Poco dopo esce con piatti di plastica e maccheroncini. Capisco che è ciò che resta del pranzo dei villeggianti loro ospiti.
Riprendiamo l’autobus verso il posto del pomeriggio, prima delle 18 è inutile scollettare, sono tutti al mare.
Saliti, mi indica una ragazza che si distingue, in un pullman estivo, per l’eleganza e il portamento. Una ragazza della quale puoi avere fiducia. “È una mano lesta”, mi dice. Rimango basito. “Non mi saluta – continua – perché sta lavorando”. Faccio fatica a staccare gli occhi da lei. C’è poca gente per lavorare in tranquillità. Scende anche lei in stazione. La vedo avviarsi velocemente dall’altra parte della pensilina per salire su un altro mezzo. Evidentemente non ha ancora terminato l’orario di lavoro.
Dove andiamo c’è un tavolo da ping pong. Gigi mi racconta che da piccolo ci giocava e di quando la mamma gli ha comprato la prima racchetta professionale. Semi professionale. Insiste per giocare, nonostante il caldo afoso. Giochiamo. I suoi occhi sono quelli del bambino che è stato. Inizialmente gioca senza infierire, forse ha paura che mi arrenda troppo presto. Piano piano prendiamo il ritmo e ci sfidiamo in una partita. È felicissimo. Quando finiamo è ancora presto. Ne approfitta per leggere il quotidiano e per i servizi.
All’orario giusto ripartiamo a piedi per raggiungere il posto di “lavoro”. Conosce tutti. Viene qui da più di un anno. Saluta, chiacchiera, si sistema. Va ad acquistare un’altra birra, è ora. Rimaniamo qui dalle 18 alle 23. “D’estate si guadagna poco, la gente ha pochi soldi – continua – mediamente raccolgo una decina di euro a giornata”. Mi piace pensare che gli ho portato fortuna, abbiamo raccolto quasi 23 euro, nonostante le bancarelle, quelle ufficiali, che al martedì e al giovedì gli fanno concorrenza.
Ogni tanto qualcuno gli commissiona qualche acquisto. La proprietaria della bancarella affianco della frutta per cena. Un signore suo conoscente del pane con formaggini. Un compagno di strada, che non può più entrare nel supermercato perché l’hanno beccato a rubare, della birra. Ognuno gli lascia qualcosa, il resto o da bere. Mentre è impegnato nelle spese prendo il suo posto. Quanta vergogna, disagio e imbarazzo stare lì per pochi minuti. Vedere la gente che passa e non ti guarda o, ancora peggio, quando ti osservano e il loro sguardo si incrocia con il mio. Qualcuno ha messo qualche monetina nel cappello. Che fatica dire grazie. Lo faccio guardando in basso. Come quando ti immergi in mare e ai tuoi occhi si apre un orizzonte inaspettato, allo stesso modo, apneista novello, con poco fiato, quando ti immergi in questo mondo appaiono creature, esseri umani, persone, che non avevi mai visto prima, eppure… eppure sono sempre stati lì. Sono lì ad aspettarci.
Per ottenere qualcosa…
Riconosco alcune persone che si rivolgono alla Caritas, come sono diverse da quando si rivolgono a noi per ottenere qualcosa. Molto spesso il povero, venendo considerato colpevole del suo stato di miseria, per ottenere comprensione e aiuto, è costretto ad inventarsi delle storie rispettabili e credibili. Ci troviamo di fronte a una messa in scena drammatica in cui il mendicante, in parte per colpa nostra, arriva a credere che, per ottenere qualcosa, debba mascherare la sua miseria. Il dramma è che, a forza di ripetere questa sceneggiata, finisce col crederci lui stesso. Il povero non ci ha imbrogliati, non ci imbroglia mai. Quando sembra farlo è perché questo è l’unico modo che gli rimane per ottenere aiuto. Non può confessare neanche a sé stesso le ragioni che l’hanno portato nel vicolo cieco in cui si trova, figuriamoci se può riuscire a confessare queste ragioni a un estraneo del quale teme il giudizio e il rifiuto.
Passano diverse persone che condividono la sua esperienza di vita. Ognuno ha trovato il suo modo di chiedere l’elemosina. Si conoscono. Chiacchierano. Ogni tanto qualcuno, accorgendosi della mia presenza, mi chiede “Sei nuovo?”. Sorrido rispondendo “Quasi”. La novità attira attenzione e mi raccontano pezzi della loro vita, avventure, disavventure.
Verso la fine…
Prendiamo l’autobus per rientrare al parcheggio. Gigi chiede perché l’ho fatto. Ci guardiamo. Gli rispondo: “Per cercare di capire” e gli domando a mia volta: “Adesso hai un po’ più di fiducia in me?”. Mi guarda e sorride.
Ancora una fermata, l’ultimo bar e l’ultima birra della giornata. I servizi prima di arrivare al camper. Riprendiamo la strada a piedi. Ci salutiamo con calore. Non gli piace essere abbracciato, me l’ha detto tempo fa. Riprendo lo scooter per rientrare a casa. Sono le 2.30.
Sono passate 18 ore, abbiamo percorso 14 km a piedi, preso 4 mezzi pubblici, ci siamo fermati in 4 bar, chiesto l’elemosina per 4 ore, bevuto parecchie birre (lui) e acqua (io), rovistato in cerca di mozziconi ancora fumabili, abbiamo incontrato, salutato e chiacchierato con tante persone.
Sono stanco, faccio fatica ad addormentarmi.
Mi chiedo: “Mario, sei nuovo?”.
Mario Galasso