La settantesima Sagra Malatestiana si avvia verso la conclusione. Molti musicisti di Rimini fra i protagonisti dei più applauditi concerti
RIMINI, 7 dicembre 2019 – Liszt si può suonare in tanti modi. Obbligatoria è solo l’assoluta padronanza tecnica della tastiera, che però non dovrebbe rappresentare l’unico fine di una lettura musicale. Oggi, molto spesso, i pianisti – contagiati da una sorta di estetica della fretta – trasformano le loro esecuzioni in una sorta di palestra dove dimostrare la propria capacità di andare più veloci degli altri. Enrico Pace, invece, ha un approccio completamente diverso. Nel suo concerto riminese – il primo nel rinato Teatro Galli – ha proposto le rare Harmonies poétiques et religeuses S.173, pagine intrise di una profonda spiritualità (che Liszt per un curioso, o forse neanche tanto, caso del destino cominciò a scrivere in un anno turbolento come il 1848), dove due brani sono intitolati Ave Maria e Pater noster. Una scelta che è apparsa particolarmente congeniale a questo artista dotato di grandi capacità d’introspezione, totalmente immune da qualsiasi tentazione retorica, capace di scavare in profondità fino a far emergere l’intensa poesia di alcuni passaggi e le più recondite intenzioni meditative di Liszt. Nell’approccio di Pace, fra quei pianisti che hanno un chiaro pensiero musicale e riescono a trasmetterlo all’ascoltatore, si scorgono le tracce del passato e s’intravvedono i semi del futuro: gli echi di Beethoven e Schumann, così come le anticipazioni di Debussy. Ogni suono sembra scaturire con totale naturalezza anche nei più tremendi passaggi virtuosistici, affrontati senza mai una sbavatura, con rigore esemplare, una minuziosa attenzione al giusto peso di ogni nota. In sintesi, un concerto splendido e, soprattutto, prezioso per la sua capacità di riconciliare con l’arte dell’ascolto.
Pace non è stato l’unico ospite riminese nel cartellone di questa lunghissima Sagra Malatestiana. Lo aveva preceduto un concerto – ma sarebbe più esatto definirlo spettacolo, vista l’estrema cura con cui è costruito – del soprano riminese Laura Catrani e del clavicembalista Claudio Astronio, che alternava l’organo positivo al cembalo. In Highland and Sea – un titolo capace di evocare insoliti accostamenti – vengono messi a confronto, in una serata di grande musica, autori all’apparenza antitetici: in realtà lontani solo dal punto di vista cronologico. Nella cornice fatiscente della Sala Pamphili, i due musicisti hanno inanellato una successione di brani vocali e strumentali che vanno dal settecentesco Royer (fra gli autori per clavicembalo più impegnativi) a Cage, fino a composizioni scritte in questo stesso 2019. E se alcuni nomi sono quasi obbligatori (da Monteverdi, Stradella e Händel ai più attuali Glass, Solbiati e Pärt), le sorprese maggiori sono venute da autori come Olli Mustonen: il musicista finlandese, noto quasi esclusivamente come pianista.
Altra presenza locale nel cartellone malatestiano quella dell’Orchestra Sinfonica Lettimi (docenti, allievi presenti e passati, con Maurizio Sciarretta primo violino) ben diretti Stefano Pecci, anche lui riminese. Dopo Die Schöpfung, eseguito con belle sonorità, morbide e avvolgenti, seppure non troppo idiomatiche, è stato proposto – collegato al celebre brano di Haydn dal medesimo soggetto della creazione – Ghenesis, poema sinfonico per pianoforte e orchestra, di cui è autore un altro giovane riminese, Antimo D’Agostino, pianista e compositore. Diviso in sette movimenti, esattamente come le giornate della Genesi, questo lavoro di proporzioni monumentali prende le mosse dalla narrazione biblica e, pur tenendo d’occhio certe ardite operazioni di Stockhausen, appare modellato su Strauss. L’idea di affidare l’esecuzione a sette pianisti diversi, che ha visto alternarsi alla tastiera Alessandro Maffei, Giacomo Fiori, Mattia Guerra, Enrico Meyer, Fabrizio Di Muro, Nicolò Giacomo Tuccia e Paolo Wolfango Cremonte, si è rivelata molto efficace: personalità diversissime fra loro e, dunque, in grado di valorizzare la differente fisionomia a ogni giornata.
Si ricollega in qualche modo a Rimini anche La Traviata da camera, proposta in memoria di Minnie Torsani: un’operazione più adatta un pubblico di giovanissimi che di adulti, visto che l’opera di Verdi dovrebbe essere un termine noto a qualsiasi melomane, e non solo. Coordinati dall’eclettico Noris Borgogelli (direttore dell’ensemble musicale e voce narrante), i tre interpreti – che provenivano dall’accademia di Osimo – hanno affrontato celebri pagine della Traviata con risultati differenti: la russa Elena Sizova ha sfoderato, per Violetta, apprezzabili doti da soprano leggero sostenute da una certa sicurezza vocale; il baritono Yuma Shimizu, come Germont, ha esibito una solida linea di canto; mentre il tenore georgiano Anzor Pilia è apparso un Alfredo un po’acerbo, con qualche problema ancora da risolvere. Ma al di là dei giudizi di merito sui tre giovani, l’interesse principale di questa esecuzione – per un pubblico avvezzo all’opera – era la possibilità, oggi davvero molto rara, di ascoltare linee di canto così come erano state concepite da Verdi e che, invece, il progressivo affermarsi della tradizione ha definitivamente modificato.
Seppure non affidate a talenti locali, in cartellone anche due serate bachiane, dagli approcci del tutto antitetici. Da un lato quello filologico dei Concerti Brandeburghesi proposto dall’Ensemble Zefiro (diretto da Alfredo Bernardini) con i pressoché inevitabili problemi d’intonazione dei fiati – corni in particolare – che creano qualche disagio nell’ascoltatore, dall’altro quello di Angela Hewitt, che da tempo esegue al pianoforte celebri pagine nate per il clavicembalo. I risultati sono di encomiabile precisione ma forse non proprio adatti a rendere giustizia a una musica splendida, il cui autore assegna un peso e un significato ben preciso a ogni nota: il pianoforte corre purtroppo il rischio di appiattirlo, smussando una tensione che è tutta interna all’architettura del brano.
Decisamente anticonvenzionale il piacevolissimo concerto della WunderKammer Orchesta diretta da Carlo Tenan. Il complesso pesarese a organico variabile si è presentato nella formazione di soli fiati – fantastici, perfetti per intonazione e senso del ritmo – con l’aggiunta di contrabbasso, le percussioni dell’eccellente Ivan Gambini e il pianoforte di Paolo Marzocchi, vera anima dell’insieme. Con le loro divertentissime trascrizioni hanno affrontato mostri sacri come Gershwin (l’irresistibile Strike up the Band, l’immancabile Rhapsody in Blue) e Bernstein (le danze da West Side Story), abbinandoli a un brano dello stesso Tenan e del sassofonista jazz Cristiano Arcelli. La componente ludica ha contagiato il pubblico, entusiasmandolo.
Lo stesso entusiasmo si riscontrava anche durante il concerto dell’inedito duo formato dal mandolinista israeliano Avi Avital e dal violoncellista palermitano Giovanni Sollima. Coerentemente al titolo scelto, Roots, si sono cimentati in un excursus sulle nostre radici musicali, in senso storico e geografico: dal barocco ai giorni nostri, toccando l’intera area del Mediterraneo. Hanno così accostato rielaborazioni di musiche popolari della tradizione siciliana, con le sue influenze arabeggianti, e sconfinato dalla tradizione Kletzmer al Maghreb, passando per il Sudamerica. Di questi due straordinari musicisti colpisce non solo la loro totale padronanza tecnica, ma l’assoluta verosimiglianza stilistica. Pur prendendosi la massima libertà esecutiva, e lasciando ampio spazio all’improvvisazione, sono riusciti a restituire le sonorità di un’epoca – dal seicento di Frescobaldi e Castello agli autori di adesso – così come di un’atmosfera geografica: basterebbe pensare allo struggente brano ucraino che Avi Avital aveva ascoltato da un fisarmonicista e poi adattato per mandolino, o alla tarantella di Eliodoro Sollima (padre del violoncellista e apprezzato compositore).
Fuori dal percorso concertistico è Rivale, il film – quella del Fulgor era la première – che documenta l’esecuzione dell’opera da camera per voce femminile, violoncello, ensemble di ottoni e percussioni di Lucia Ronchetti. Il regista Giulio Boato e il direttore della fotografia Alberto Girotto hanno interpolato sequenze visive registrate durante le prove, con immagini relative all’esecuzione concertistica del 5 agosto alla Sala Pamphili. Anche se il filmato non riesce a restituire la tensione, davvero straordinaria, che si respirava dal vivo, si tratta di un prezioso lavoro di documentazione che rende giustizia agli interpreti – l’ottima cantante HsiaoPei Ku, circondata da eccellenti strumentisti – e, soprattutto, a un’autrice non ancora valorizzata a sufficienza in Italia. Da notare che la proiezione è stata preceduta dal Requiem per viola sola, lavoro di una Ronchetti appena diciannovenne, interpretato – si trattava della prima italiana – dal violista Luca Sanzò, che ne ha saputo valorizzarne la polifonicità e il non facile virtuosismo.
Sabato prossimo calerà definitivamente il sipario sulla Sagra. Il compito di siglare la settantesima edizione spetta all’Orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia diretta da MIhhail Gerts in luogo del preannunciato Dudamel.
Giulia Vannoni