Al Carlo Felice di Genova un collaudato allestimento del capolavoro verdiano ancora con il baritono Leo Nucci acclamato protagonista
GENOVA, 23 dicembre 2017 – Rigoletto è fra quei titoli che ricorrono periodicamente in tutte le programmazioni operistiche. E se da un lato ogni nuovo ascolto rappresenta una preziosa opportunità per ammirare il genio di Verdi (non si finisce mai di scoprire qualcosa che poteva esser sfuggito in precedenza), dall’altro è abbastanza difficile rimanere sorpresi da interpretazioni che – nel migliore dei casi – non vanno oltre un consolidato mestiere.
Al Carlo Felice di Genova è andato in scena un Rigoletto con la regia di Vivien Hewitt: ripresa dello spettacolo ideato dal baritono Rolando Panerai (che in alcune occasioni si è cimentato nel ruolo, per lui meno consueto, di regista) e già allestito per il teatro genovese nel 2013. Cornice d’epoca e abiti, di vaga ispirazione rinascimentale, a firma Regina Schrecker, ma la curiosità maggiore non riguardava tanto una messinscena di buona fattura e piuttosto tradizionale, bensì il suo protagonista: il baritono che più di chiunque altro si è identificato con questo personaggio. Parliamo ovviamente di Leo Nucci che, a settantacinque anni (di cui cinquanta di carriera), si caratterizza sempre più come esempio di fenomenale longevità artistica. Manovra il personaggio come nessun altro, ne scandaglia gli aspetti psicologici e il comportamento ai limiti della schizofrenia – da un lato il cinico buffone, dall’altro un padre affettuoso e possessivo – e risolve attraverso un sapiente uso degli accenti le diverse situazioni drammatiche (con lui davvero si capisce il valore di quella ‘parola scenica’ tante volte chiamata in causa da Verdi), riuscendo a compensare una certa mancanza di ‘legato’ dovuta all’inevitabile trascorrere del tempo. Il suo Rigoletto continua a emozionare il pubblico e Sì, vendetta, tremenda vendetta viene bissato come ai vecchi tempi.
A fronte della sbalorditiva sicurezza nel canto di questo veterano, il tenore non ha mostrato altrettanta padronanza: Celso Albelo possiede una notevole facilità di emissione in acuto – meno sonoro invece il registro medio-grave – ma si è lasciato andare a qualche gigioneria di gusto un po’ discutibile, come la puntatura poco riuscita in Possente amor mi chiama o la fin troppo smaccata corona a conclusione della Donna è mobile. Molto brava invece la georgiana Sophie Gordeladze: un soprano dai sostanziosi e ben gestiti mezzi vocali, sicura nelle colorature e sempre espressiva sia nel comunicare l’affetto verso il padre sia la sua determinazione a sacrificarsi per salvare la vita del Duca. Più modesto il contorno, a partire da Kamelia Kader, una Maddalena da dimenticare, mentre lo Sparafucile del basso Mihailo Sljivic poteva almeno sfoggiare voce sempre timbrata e voluminosa. Fra i comprimari emergevano Claudio Ottino come Marullo e Aldo Orsolini nei panni di Borsa. Un po’ fioco invece il Monterone del veterano Stefano Rinaldi Miliani.
Sul podio dell’Orchestra del Carlo Felice, il direttore Dorian Wilson non ha dimostrato troppa familiarità con l’opera verdiana, soprattutto per discutibili scelte dinamiche. Più di uno, poi, gli scollamenti fra buca e palcoscenico, con momenti in cui mancava l’appiombo fra strumentisti e cantanti, come nel grande concertato del primo atto. Ma questo era, all’antica, un Rigoletto dei cantanti.
Giulia Vannoni