Giovanna d’Arco opera giovanile di Verdi messa in scena al St.Galler Festspiele con la coinvolgente regia di Barbora Horáková
SAN GALLO, 24 e 25 giugno 2022 – Giovanna d’Arco come occasione per un’appassionata condanna della guerra. Per Barbora Horáková tutto è subito evidente dalla sinfonia: in palcoscenico sta immobile una giovane donna incinta tenere per mano una spaurita bambina bionda, memento di ogni profugo, mentre i coristi avanzano spingendo delle malandate carrozzine piene di terra (troppo spesso è un astratto ideale di patria a innescare la violenza) da cui estraggono indumenti infantili insanguinati. La regista praghese, coadiuvata dalle scene di Susanne Gschwender e dai costumi – che mescolano reminiscenze medievali ad abiti odierni – di Annemarie Bulla, riesce subito a far entrare in risonanza il pubblico con l’opera giovanile di Verdi (1845) dedicata alla Pulzella d’Orleans, che ha inaugurato il St.Galler Festspiele nel suggestivo scenario del chiostro dell’abbazia di San Gallo. Il libretto di Solera ispirato a Schiller (dove la protagonista non muore sul rogo, ma cade in battaglia), del resto, non è del tutto risolto e si affida a generiche istanze romantiche, attribuendo a Giovanna cedimenti amorosi e tentazioni demoniache. Lascia dunque alla regia un ampio margine d’intervento: non solo nel definire le psicologie del terzetto protagonistico e le dinamiche dei loro rapporti, ma per lavorare sul coro, concepito da Verdi come un vero e proprio personaggio.
L’aspetto più interessante dello spettacolo diventa, così, mostrare come la guerra venga vissuta in maniera diversa da uomini e donne, da vecchi e bambini. Accanto alle esibizioni di violenza muscolare maschile, si assiste pertanto a una furiosa aggressività femminile, come di recente ci hanno mostrato le cronache dall’Ucraina, ma soprattutto balza in primo piano lo spaesamento dei vecchi: uno che ascolta la radiolina per tenersi informato e un altro che accarezza una lepre morta – forse il suo unico possesso – mentre si allontanano sorreggendosi a vicenda. E più ancora si percepiscono i devastanti effetti sui bambini (Giovanna d’Arco prevede anche un coro di voci bianche), privati della loro infanzia: è un pugno nello stomaco la marcia del piccolo soldatino di pelle scura che attraversa il palcoscenico, evocando – in un inquietante cortocircuito emotivo – i tanti bambini che in paesi lontani hanno conosciuto solo guerra e violenza. Pazienza se talvolta qualche passaggio appare un po’ troppo ideologico, come nella scena finale, dove un gruppo di donne, appartenenti ad associazioni umanitarie, innalzano cartelli di memoria brechtiana che descrivono con poche frasi fulminanti le loro esperienze di volontariato.
Al centro di questo dramma a tre soli personaggi c’è il rapporto tra la protagonista e un padre – le eroine verdiane sono sempre orfane di madre – bigotto e con l’ossessione del peccato, che si autoflagella in modo cruento, ostentando crocifisso e bibbia: incapace di rendersi conto che la figlia possa provare attrazione nei confronti del giovane re. Ai suoi occhi, Giovanna resta un’eterna fanciulla: l’idea è resa in modo efficace da un doppio della protagonista (un’adolescente che si diverte a far roteare la spada), costantemente in scena. A sua volta, Giovanna è spaventata dai propri sentimenti, tenta di resistere a quelle pulsioni naturali che reputa tentazioni demoniache, mentre il re viene presentato come un personaggio fragile e un po’ immaturo, sul piano politico non meno che su quello dei sentimenti.
Spetterebbe dunque alla musica sottolineare queste fisionomie. Modestas Pitrenas, alla guida dell’Orchestra Sinfonica di San Gallo, ha diretto – qui si dà conto di due recite con cast differente – in modo un po’ troppo cauto la prima sera: tempi lenti ed eccessiva leggerezza nei passaggi più cantabili. Nella seconda, invece, ha saputo imprimere un andamento più sciolto e veloce. In ogni caso, gli va riconosciuto il merito di esser riuscito a tenere insieme strumentisti e cantanti: operazione non facile all’aperto e con l’orchestra del tutto invisibile.
Nel primo cast si è imposto il baritono Evez Abdulla: un Giacomo convincente sul piano vocale e straordinariamente duttile nell’assecondare le indicazioni registiche. Ha ben figurato anche il tenore Mikheil Sheshaberidze, che ha saputo imprimere a Carlo tratti ora epicizzanti ora spaesati. Fraseggiatrice espressiva ed efficacissima sul piano scenico la Giovanna di Ania Jeruc, ma la vera sorpresa è arrivata dal soprano polacco Marigona Qerkezi, mattatrice del secondo cast: per omogeneità di emissione, incredibile lunghezza dei fiati e sbalorditiva sicurezza nelle colorature. Di fronte alla bravura della collega sono passati quasi inosservati il tenore Giorgi Sturua e il baritono Giuseppe Altomare, pur apprezzabili.
Straordinario il contributo del magnifico Coro Filarmonico di Praga, che non deve soltanto cantare ma sostenere un’impegnativa prova fisica. Spetta soprattutto a loro il merito di aver trasmesso l’idea di tanta spietata violenza, alternata a momenti di poetica e struggente intimità.
Giulia Vannoni