Home Attualita RIDUZIONE TASSE, TRA PROPAGANDA E REALTÀ

RIDUZIONE TASSE, TRA PROPAGANDA E REALTÀ

L’Italia ha il secondo debito pubblico più alto d’Europa. Abbassare le tasse porta a due conseguenze: ulteriore aumento del debito (e degli interessi) o taglio dei servizi pubblici. Non solo: ridurre le tasse, ma a chi?

Siamo onesti: chi non vorrebbe che le tasse sparissero e quei soldi versati allo Stato tornassero nelle nostre tasche. Ma se pensiamo, coscientemente o meno, che questa sia la strada giusta dobbiamo anche essere pronti a pagare quanto entriamo in un Pronto Soccorso (in America ti buttano fuori se non hai una carta di credito con un buon conto di supporto), chiediamo una visita al medico di famiglia, andiamo a riscuotere la pensione, portiamo i nostri figli a scuola, insomma chiediamo buoni servizi pubblici che non costino troppo e possibilmente gratuiti.

Ma tutto questo, che fa la differenza tra una economia sociale di mercato, come quella europea, e una economia solo di mercato (dove cioè tutto si compra, se ne hai le possibilità) ha un costo, che lo Stato, qualunque sia il governo in carica, copre con la tassazione. Sono due tipologie di società, sempre democratiche, ma con una attenzione diversa al benessere delle persone e alle disuguaglianze sociali. In genere la promessa di ridurre le tasse, in una campagna elettorale che si rispetti, non manca mai, in particolare nella destra. Qualcosa è stato fatto, ma nessuno è riuscito a fare miracoli. E ci possiamo scommettere che sarà così anche questa volta.

Non fosse altro per un elemento, non a caso assente in tutte le campagne elettorali, non proprio secondario: l’Italia ha un debito pubblico, a giugno 2022, di 2.766 miliardi di euro, il secondo più alto d’Europa dopo la Grecia, che equivale al 150 per cento del Pil (era al 105 per cento nel 2000), a fronte di una media per l’area euro del 96 per cento. Se tanti occhi, soprattutto della finanza, quella che presta i soldi, sono puntati sull’Italia non è completamente senza ragione. Questo enorme debito, che pagheranno soprattutto le future generazioni, ci costa, per interessi, circa 60 miliardi di euro l’anno, il triplo, in valore assoluto, della Germania e quasi il doppio di Francia e Spagna. In questa situazione l’abbassamento della tasse, sempre auspicabile, che vuol dire ridurre le entrate dello Stato, porta a due conseguenze: ulteriore aumento del debito, che probabilmente farà aumentare i tassi di interesse da pagare, situazione che l’Italia ha già vissuto, oppure taglio dei servizi pubblici, come sanità, scuola, ecc. Siccome i soldi non si stampano con la macchinetta, ci sono poche alternative.

Ma non finisce qui. C’è un ulteriore fattore da considerare: ridurre le tasse per chi? Negli ultimi decenni, per via di un certo modo di intendere liberalizzazione e globalizzazione, le disuguaglianze sociali sono cresciute, a volte a dismisura, premiando, indipendentemente dal merito, i più ricchi a scapito dei più poveri e della classe media. Tanto per dare un’idea: gli stipendi dei primi dieci top manager italiani che nel 2008 valevano 416 volte lo stipendio di un operaio, già una enormità, nel 2020 sono arrivati a 649 volte (Dataroom di M.Gabanelli, Corriere della Sera del 11/07/2022). Vogliamo far pagare loro le stesse tasse che versa un operaio? Sarebbe giusto e socialmente desiderabile che a chi può, senza minimamente incidere sul loro livello di vita, sia esentato dal dare un contributo maggiore alle entrate dello Stato, con cui si dovranno poi pagare tanti servizi? Perché la proposta di una “tassa piatta” uguale per tutti, indipendentemente dal livello di reddito, porta esattamente a questo. Che ricchi e poveri pagheranno, in proporzione, le stesse tasse. Una misura che contribuirebbe, di fatto, ad allargare ulteriormente le disuguaglianze nel nostro paese e ad esacerbare i conflitti sociali.

Per ultimo non esiste nessuna evidenza, contrariamente a quanto taluni vogliono far credere, che meno tasse per i più ricchi sia la premessa per più investimenti e sviluppo: negli anni Settanta del secolo scorso l’aliquota massima, applicata ai ricchi, negli Stati Uniti era al 70 per cento e in Italia al 72 per cento, eppure coincise con il periodo di massima crescita per entrambi. Oggi, in Italia, l’aliquota massima per chi guadagna più di 50mila euro è del 43 per cento, ma l’economia cresce poco da un paio di decenni. I salari addirittura sono tornati indietro.

Sulle tasse bisogna intervenire, ma facendo pagare di più a chi può e di meno a che è rimasto indietro. Soprattutto facendo pagare tutti. Non tasse piatte e nemmeno condoni, ma maggiore progressività. Come è scritto nella Costituzione.