Per tutti era il Maestro. Così, i suoi allievi di pianoforte hanno sempre chiamato Alfredo Speranza. Senza bisogno di aggiungere altro. In una società dove la parola “maestro” è caduta in disuso, la sua figura carismatica si staglia a contorni nitidi nei ricordi di chi ha studiato con lui.
Avrebbe compiuto novant’anni l’8 gennaio, ma Speranza se n’è andato prima, il 28 settembre scorso.
Settant’anni di carriera concertistica (la prima esibizione, a Montevideo, sua città natale, risale al 1937), cui in seguito si è aggiunta un’attività compositiva sempre più intensa, ma è forse l’impegno didattico la sua più importante eredità artistica. Era arrivato a Rimini nel 1955 e aveva scelto di stabilirsi qui, avviando quattro anni dopo una vera e propria scuola di musica in casa sua (nonostante un rapporto segnato da una diffidenza iniziale delle istituzioni, nel 1999 gli venne conferita la cittadinanza onoraria). Nel provinciale ambiente riminese, la sua personalità spiccava: aveva girato il mondo, parlava più lingue, si trovava a proprio agio in ogni ambiente. Poteva vantare fra i suoi insegnanti leggende del pianoforte come Gieseking e Zecchi, oltre alle amicizie con tanti grandi della tastiera: per attingere alla sua esperienza, e ascoltarne i suggerimenti, da lui andavano a lezione pure pianisti già in carriera. Paterno e al tempo stesso esigente (dagli allievi pretendeva una disciplina che spesso passava attraverso la severità), ha formato generazioni di musicisti, molti dei quali hanno colto successi in competizioni internazionali e raggiunto elevati traguardi.
È attraverso le loro parole, ricordi e testimonianze – mai scindibili dal profondo affetto che li legava al Maestro – che emerge la figura del grande didatta.
Tra i primi a spiccare il volo, partendo da quella bellissima abitazione in via Principe Amedeo, c’è Enrico Meyer, che a soli 23 anni vinse il concorso per la cattedra di pianoforte principale al Lettimi, in seguito ne è stato direttore per alcuni anni e tuttora continua a insegnarci. Ci racconta come – lui più interessato allo sport che alla tastiera – si lasciò convincere dalla madre ad andare a lezione da “un insegnante che abitava dopo il Grattacielo e aveva fama di bravo”. Speranza ebbe il merito d’intuirne le potenzialità, gli diede fiducia, lo incoraggiò, sgridò, riuscendo però a “catturarlo emotivamente”. “Dal Maestro ho imparato molte cose, anche non direttamente connesse alla musica, importanti per la mia crescita: trovare la forza di evolvere e il coraggio di effettuare scelte, accettando i possibili errori, per cercare una strada personale che rispondesse alle mie più profonde esigenze interiori”.
Fra i primi allievi anche Stefano Cucci, docente di conservatorio e collaboratore di Ennio Morricone, ne ricorda “la figura elegante e carismatica, la grande capacità affabulatrice, tutte doti che mi hanno segnato profondamente”. E continua: “Quello che sono oggi lo devo ai miei grandi insegnanti: Speranza, Irma Ravinale, Danilo Belardinelli. Ma il Maestro ha un posto speciale nel mio cuore perché ha raccolto i miei sogni di bambino e le mie speranze di adolescente, costruendo le fondamenta del musicista che sono oggi. Didatta generoso, maniacale nella cura dei particolari, instancabile sostenitore della pregevolezza del gesto pianistico, della ricerca del bel suono, dell’interpretazione lucida ma sempre appassionata. Cercherò umilmente di trasmettere tutto ciò ai miei allievi, affinché la sua testimonianza non vada perduta”.
Anche Marco Ricciarelli, oggi docente al conservatorio di Rovigo, ne rievoca il modo di concepire la musica: “La ricerca del bel suono, l’articolazione del fraseggio, la cantabilità (requisito assolutamente imprescindibile) e l’espressività. Un brano doveva aspirare alla bellezza, compiutezza e perfezione: nei primi anni quest’obiettivo sembrava frustante, un compito troppo grande per uno studente (l’agilità, il legato, la tavolozza dei colori non era mai abbastanza ampia per il Maestro!). Ma, con il passare del tempo, si riusciva a fare il salto di qualità, instaurando così una sorta di complicità: la lezione si trasformava in uno scambio da entrambe le parti, come dovrebbe sempre accadere, almeno a un certo livello”. E aggiunge Ricciarelli, ricordando come gli insegnamenti musicali fossero inscindibili da quelli umani: “Il Maestro era capace di gesti di grande generosità. Cominciai a studiare quando ero molto piccolo: veniva lui a Bologna e mi faceva lezione sul mio pianoforte. Con gli anni diventai uno dei suoi primi studenti a cogliere soddisfazioni professionali in concerti e concorsi. Ne fu felicissimo e si entusiasmò a tal punto che decise di offrirmi una borsa di studio per un anno di lezioni gratuite”.
Fra gli allievi più talentati e, a sua volta, insegnante di pianoforte c’è Simonetta Pesaresi (nella foto con Speranza): una lunga esperienza concertistica – si è spesso esibita anche in duo con il Maestro – e organizzatrice, dal 1993, del Festival Internazionale di Misano Adriatico. “La mia vita è stata scandita dal rapporto con lui, da quando avevo nove anni: le lezioni settimanali in casa sua, i concerti-saggi, il diploma, i concorsi con le vittorie e le inevitabili delusioni, i grandi corsi frequentati in Italia e all’estero, gli ultimi anni quando – ormai a letto e malato – sapeva ancora ascoltare e donare tanto, anche in termini musicali. Nell’ultima sala di casa sua c’era il pianoforte nero delle «prove generali» (diverse dagli altri incontri e organizzate prima di un concorso, di un concerto o di un esame importante): il Maestro si sedeva – con somma preoccupazione di tutti noi allievi – sulla poltrona nera di pelle, chiudeva gli occhi, abbassava il capo e cominciava ad ascoltare in religioso silenzio, da capo a fondo, ogni brano in programma. Muoveva lievemente la mano destra, tendendo il dito indice e il pollice e facendo intendere, con impercettibili movimenti, il suo grado di compiacimento (o di disappunto) per l’esecuzione in atto”. E continua: “Mi capita spesso di parlare di Speranza con i miei allievi, anche giovanissimi, e sono davvero felice di farlo perché sentono quanta energia e passione c’era nel loro nonno Maestro, come lui amava definirsi”.
Attualmente direttore dell’Istituto Musicale di Riccione, dove è docente di pianoforte, Gianmarco Mulazzani ha ereditato questo incarico proprio da Speranza che ne fu chiamato alla guida fra il 1999 e il 2003 (una presenza breve ma che ha inciso profondamente sulla scuola): lo sostituiva quando doveva assentarsi per i suoi impegni concertistici. Anche lui ricorda il periodo trascorso come allievo, fino al diploma: “Mi conquistò il modo di gesticolare del Maestro, la sua passione, il carisma che sprigionava in ogni suo movimento e parola, la grandissima conoscenza dell’arte pianistica che gli consentiva di mettere a confronto innumerevoli interpretazioni del medesimo brano”. Davide Muccioli e Davide Cavalli, entrambi allievi negli stessi anni, hanno formato un duo che per anni ha mietuto successi nei concorsi: una macchina da guerra di cui il Maestro andava orgoglioso (a Muccioli ha dedicato un pezzo della Cantata riminese). Cavalli oggi è docente di pianoforte e collabora regolarmente con Riccardo Muti: “Penso che se a Rimini non ci fosse stato lui, probabilmente molti di noi oggi non farebbe questa professione. Grazie a don Dino Gabellini, a otto anni ho avuto la possibilità di conoscere il Maestro. Le difficoltà sono state tante, soprattutto quando la mia curiosità mi ha spinto verso percorsi che si allontanavano dall’unica maniera d’intendere il Pianoforte che aveva lui. Però, quando mi ha visto a fianco di musicisti importanti, l’ho sempre sentito vicino e abbiamo condiviso tanti passaggi importanti della mia carriera. Gli devo praticamente tutto”.
Appartiene alla stessa generazione anche Davide Feligioni Pantaleoni, non solo pianista ma anche pittore e poeta. “Il ricordo più bello del Maestro è la cura profusa nell’analisi e nell’interpretazione della partitura, sviscerata secondo «l’occhio del compositore» e non del mero insegnante: nel rispetto assoluto, a tratti maniacale, della volontà dell’autore. Ha formato le nostre personalità di artisti, quasi ai limiti delle possibilità di ognuno, suscitando capacità sopite, ancora inconsce, fortemente genuine, forse nemmeno mai rivelate a noi stessi”.
L’assenza di Speranza pesa a tutti: Rimini dovrebbe mantenere vivo il ricordo della sua personalità musicale. Una gratitudine doverosa per aver formato generazioni di ottimi musicisti.