Un nuovo allestimento di Aroldo ha debuttato a Rimini nel teatro per il quale Verdi aveva composto l’opera nel 1857
RIMINI, 27 agosto 2021 – Rimini non ha avuto un rapporto facile con quel teatro che adesso è motivo di grande orgoglio cittadino. Nel 1857 era stato Verdi, niente meno, a scrivere appositamente Aroldo per la stagione inaugurale: un privilegio, certo, ma al tempo stesso un’ingombrante eredità. A raccoglierla, adesso, è un nuovo allestimento che, per la regia, porta la firma a quattro mani del musicologo Emilio Sala, responsabile anche della drammaturgia, e dello scenografo Edoardo Sanchi. Uno spettacolo che, dopo Rimini, circolerà nei teatri di Ravenna, Modena e Piacenza.
Tenendo conto di una certa pretestuosità del libretto di Francesco Maria Piave (in sostanza Aroldo è un rifacimento di quello Stiffelio che nel 1850 era incorso nelle maglie della censura), Sala provvede alla sua riscrittura, tanto è vero che nel volumetto distribuito al pubblico non è riportata alcuna sinossi della vicenda originale.
Siamo nel 1936: il protagonista non è più un crociato, ma un reduce dall’Abissinia, mentre il pio eremita Briano si trasforma in un ascaro al suo seguito e il padre di Mina diventa un Podestà. Ne derivano alcune manipolazioni della versificazione, per cui Aroldo canta Sotto il sol dell’Abissinia (anziché di Siria ardente) e se questo cambiamento può apparire un peccato veniale, lascia davvero perplessi sfumare il monumentale concertato che conclude il primo atto nella voce del Duce, saldandolo con il secondo. Dopo l’intervallo vengono accorpati terzo e quarto atto, l’unico scritto da Verdi ex novo: qui l’orologio si sposta al 28 dicembre 1943, data del tragico bombardamento che ha danneggiato il teatro di Rimini. Nel frattempo, il padre ha ucciso l’amante della figlia – salvando dunque, secondo tale rilettura, un perbenistico, fascistissimo, onore – e il dramma si conclude con una sofferta riconciliazione fra i due sposi. Lo spettacolo termina con l’innalzamento del sipario dipinto da Francesco Coghetti, salvatosi miracolosamente dalle bombe, che resta forse il gesto più teatrale dell’intera serata, anche in virtù di una sua ambivalenza: il passaggio di Cesare sul Rubicone, che vi è raffigurato, rimanda tanto a una romanità di sapore mussoliniano, quanto a una cantata giovanile del socialista Amintore Galli, cui nel 1947 il teatro fu dedicato. E se le scene di Giulia Bruschi, realizzate con i soliti tubi innocenti e pochi oggetti di arredo, non riescono a imprimersi nella memoria a causa del buio da cui è avvolto il palcoscenico, l’unica variazione cromatica è data dall’abito rosso di Mina e dalla divisa bianca di Aroldo (i costumi sono di Elisa Serpilli e Raffaella Girardi). Nella penombra incombente (luci di Nevio Cavina), a farla da padrone, sono così le proiezioni dell’artista visivo Matteo Castiglioni, realizzate montando documenti di filmati storici.
Il fascino della musica di Aroldo è dato dalla sua natura bifronte: da un lato Verdi utilizza codici espressivi appartenenti al passato (ben evidenti negli echi rossiniani della sinfonia) o che si era andato costruendo negli anni (sarà una delle ultimissime volte che ricorre a una cabaletta, Oh gioia inesprimibile, cantata dal baritono), dall’altro sembra guardare a nuovi grandi orizzonti sinfonico-vocali, soprattutto nel bellissimo quarto atto. Manlio Benzi – sul podio dell’Orchestra Cherubini, poco amalgamata a causa del distanziamento – ha però preferito smussarne tutte le variegate diversità, optando per omogeneizzanti tempi lenti.
Non sempre a loro agio i cantanti, anche se Isa Traversi ha saputo trasformarli in attori efficaci attraverso un accurato lavoro di movimenti scenici, conducendo un’operazione altrettanto proficua anche sul Coro del Municipale di Piacenza, preparato da Corrado Casati e composto da apprezzabili professionisti. Nel cast si è imposta, per il bel registro grave, il giovane soprano Lidia Fridman, che ha disegnato un’intensa Mina, dolente e attanagliata dai rimorsi. Preoccupato soprattutto di mantenere la stabilità in acuto, e più solido invece nella zona centrale, è apparso il protagonista Antonio Corianò, mentre il baritono Michele Govi, nonostante i limiti di una voce un po’ pallida, ha affrontato il ruolo del padre con una certa consapevolezza della ‘parola scenica’. Di buona presenza Cristiano Olivieri, il secondo tenore, e da lodare il basso Adriano Gramigni nei panni di Briano. Fra gli interpreti anche l’attore Ivano Marescotti, arrivato in bicicletta (una citazione del professore di Amarcord, insieme alle facce dei gerarchi), per sintetizzare in un prologo gli snodi di questa rilettura. È una storia che i riminesi dovrebbero saper leggere fra le righe. O forse la memoria del passato è così labile da dimenticare anche quello che è successo solo pochi anni fa?
Giulia Vannoni