È uno dei tanti cervelli italiani. Solo, che a differenza di altri, non è in fuga e ha deciso di rimanere a lavorare nel suo Paese. Più precisamente all’ospedale ‘Sant’Orsola’ di Bologna.
Recentemente ha realizzato un trapianto unico al mondo. Tanto da essere pubblicato sull’American Journal of Transplantation, la rivista trapiantologica a più alto impatto internazionale. Un intervento pensato e ideato dopo anni di studi e che potrebbe rappresentare una nuova speranza per chi è ammalato di tumore. Lui è il Professor Matteo Ravaioli.
Quarantasei anni il prossimo 11 ottobre, nato a Forlì, ma riminese d’adozione (“ mi sono trasferito quando ne avevo 13”), ora vive sotto le Due Torri con la moglie e i due figli.
Professor Ravaioli, la prima domanda è banale, ma va fatta. Quanto ha influito, e se ha influito, sulla sua scelta di diventare medico, essere il figlio di un oncologo (Alberto) tanto stimato?
“Sinceramente parlando, poco. O meglio, indirettamente qualcosa sicuramente ha influito. Ma quello che ho sempre apprezzato di mio padre è il fatto che non mi ha mai condizionato nelle mie scelte, soprattutto in questa che per il mio futuro era importante. Diciamo che dopo la maturità scientifica presa all’Einstein avevo due idee per me: quella che mi portava a Medicina e l’altra che aveva come traguardo finale la facoltà d’Ingegneria. Alla fine scelsi la prima perché dopo i test mi piazzai bene in graduatoria e poi perché capii subito che il fare ricerca era una cosa che mi allettava molto”.
E la scelta di diventare un chirurgo in un ambito molto particolare come quello dei trapianti, da dove nasce?
“Anche questa è stata una cosa abbastanza casuale, nel senso che quando ero ancora studente iniziai a frequentare un reparto di chirurgia dove si facevano i trapianti e ne rimasi fin da subito affascinato, tanto da capire che questa sarebbe stata la mia strada. Non è stata facile, lo dico molto sinceramente, perché in Italia non esiste una specializzazione di questo tipo e quindi ho deciso di viaggiare per acquisire più competenze possibili e per andare a vedere procedure nuove fatte in centri all’avanguardia. Sono stato in Canada, Corea, Francia, Germania, Inghilterra, Belgio e Giappone. Tappe brevi, ma che sono state fondamentali nella mia crescita professionale”.
Una crescita che l’ha portata a realizzare un intervento unico al mondo.
“Esattamente. È stato un intervento frutto di tanti anni di studio dove le esperienze fatte in giro per il Mondo hanno avuto un peso specifico importante. Prima l’ho progettato, poi l’ho pubblicato su una rivista scientifica dove i revisori mi hanno mosso anche delle critiche, ma mi hanno anche dato alcuni consigli sugli aspetti più difficili da risolvere. Poi c’è stato l’iter dei comitati etici locali, regionali, nazionali e poi l’attesa per realizzarlo.
Diciamo che l’unicità di questo intervento è consistita nell’avere impiantato al posto della milza del paziente non un organo intero, ma solo una piccola porzione di fegato del donatore per consentire di crescere adeguatamente e al contempo non entrare in contatto con il fegato metastatico che avrebbe potuto compromettere il nuovo organo. Quindi, successivamente, è stato possibile eseguire la rimozione dell’organo malato, dopo che il fegato trapiantato era cresciuto di dimensioni ed idoneo a soddisfare le esigenze metaboliche del paziente”.
Verrebbe da dire, finalmente un cervello non in fuga.
“Su questa concezione che le menti migliori siano costrette a lasciare l’Italia per lavorare in un certo modo, non sono d’accordo. Abbiamo tante persone molto preparate, molto brave anche nel nostro paese. Come dicevo, a volte è anche questione di opportunità o di casualità. Ma mi creda, l’Italia può vantare tantissime menti brillanti. Poi è logico, altri per ragioni diverse, possono decidere di trasferirsi all’estero”.
Chirurgo di fama internazionale, ma anche ottimo attore, se così si può dire.
“In che senso, scusi?”
Nel senso che è stato uno dei protagonisti del docufilm in dieci episodi di Trapianti. Destini incrociati, andato in onda nel 2010 sulla piattaforma Sky.
“Ah… (ride). Devo dire che è stata una bella esperienza, non tanto sul momento quanto in quello che mi ha lasciato successivamente perché mi ha dato l’opportunità, rivedendoli, di accorgermi di cose che nell’istante in cui le stavo vivendo, mi erano sfuggite.
Penso alle parole dette da tanti pazienti, alle loro emozioni confessate davanti alla telecamera, alle loro paure. Ma penso anche ai familiari, a come vivono certe situazioni.
Cose che mi hanno portato a riflettere sulla comunicazione che si instaura tra medico, paziente e famiglia. Tante volte ci rivolgiamo alle persone usando termini e toni che sono un po’ routinari perché per noi rappresentano la quotidianità.
Invece ogni paziente, ogni famiglia ha un suo modo di vivere la malattia. La delicatezza e l’umanità nel sostenere un dialogo del genere devono essere sempre al primo posto per chi esercita la mia professione. Tornando al docufilm, invece, devo dire che abbiamo avuto la fortuna di lavorare con veri professionisti del settore, ad un certo punto non ci siamo più accorti che loro erano lì con noi. Poi sono stati bravi nel rendere situazioni così drammatiche un prodotto televisivo”.
Dalla serie emerge prepotentemente che la vostra vita è fatta di tante ore in sala operatoria, a volte anche dieci, dodici di fila, e che non avete orari perché il telefono può squillare sempre, da un momento all’altro. Ma è proprio così?
“Esattamente così. Ma l’ho scelta io questa vita e quindi non mi pesa. Certamente qualcosa viene sacrificata perché una giornata è fatta di 24 ore e se ne passi 12 in ospedale è logico che togli qualcosa al resto. Nel mio caso ho la fortuna di avere una famiglia che mi appoggia in tutto e per tutto.
Mia moglie e i miei due figli sanno che non sto con loro per motivi importanti e quindi capiscono i sacrifici, che anche loro, talvolta, sono costretti a fare. Porto un esempio molto pratico accaduto poche settimane fa. Io e mia moglie Cristina siamo amanti della bicicletta, eravamo andati a fare un giro quando mi è squillato il telefono per un problema molto serio con un paziente trapiantato. Sono smontato dal treno in cui ero appena salito con la bicicletta e mi sono precipitato in ospedale.
Del resto i problemi urgenti dei pazienti hanno priorità su tutto. È un sacrificio, ma quando vedi la gioia di un paziente che hai curato, tutto passa in secondo piano. Sulla durata delle operazioni, anche quella è verità, non finzione. Come facciamo? Quando si è giovani, stare in piedi per tanto tempo, non ti pesa. Adesso che ho qualche primavera in più sulle spalle ho iniziato ad allenarmi fisicamente proprio per resistere a questo tipo di stress”.
Ultima domanda. È un bolognese doc, o si sente un riminese trapiantato, scusi il gioco di parole, in Emilia?
“Rimini è la mia città. E lo sarà sempre. Lì sono cresciuto, lì ho i miei genitori, i miei suoceri e tanti amici e quando posso ci torno. Per un giorno, un week end, poco importa. Ma devo dire che anche Bologna ha tanti aspetti che mi hanno conquistato. Diciamo che ho la fortuna di poter vivere in due dei luoghi più belli d’Italia”.