Prima un bel pomeriggio passato serenamente al centro Italia-Cina di San Nicolò, legato alla comunità di Monte Tauro, dove il cardinal Pietro Parolin ha incontrato i bimbi che vi fanno il doposcuola. Si è poi intrattenuto con gli educatori e i volontari (cinesi e italiani) in un bel dialogo sulla situazione della Chiesa in Cina.
Alle 18 la Santa Messa alla parrocchia di Santa Maria al mare, che lo ha invitato ad intervenire ai “Lunedì di Viserba”. Tempo incerto, alla fine prevale la scelta di fare l’incontro in chiesa. Una folla. Posti tutti occupati ben prima delle 21.
Questo il testo integrale del suo intervento.
Le periferie Geografiche ed esistenziali
La profezia di papa francesco nell’era della globalizzazione dell’indifferenza
Viserba, 15 luglio 2019
Mi è stato chiesto di parlare della profezia di Papa Francesco nell’era della globalizzazione dell’indifferenza. Provo dunque a offrire alcuni semplici spunti di riflessione sulla condizione in cui tutti siamo immersi e anche sulle strade che Papa Francesco suggerisce a tutti noi, con il suo magistero e la sua predicazione quasi quotidiana.
Don Aldo Fonti mi ha invitato proprio a delineare la “profezia” di Papa Francesco. Per questo, come premessa, mi sembra utile citare una lunga intervista rilasciata nel marzo 1998 – tanto tempo fa – dall’allora Cardinale Joseph Ratzinger (pubblicata sulla rivista 30 Giorni). In quell’intervista, focalizzata proprio sul tema della profezia, il futuro Papa Benedetto XVI sottolineava il fatto che il profeta «non è uno che predice l’avvenire.
L’elemento essenziale del profeta – diceva il Cardinale Ratzinger – non è quello di predire i futuri avvenimenti; it profeta è colui che dice la verità perché è in contatto con Dio e quindi quello che dice ha che fare con la verità del presente, la verità valida per l’oggi, che naturalmente illumina anche il futuro».
Il futuro Pontefice criticava anche la tesi di chi dice che la venuta di Cristo e la scrittura dell’Apocalisse hanno posto termine a ogni profezia. Come se la storia della salvezza si fosse già esaurita, e a noi non rimanesse altro da fare che “prendere coscienza” di una salvezza già avvenuta, già conquistata e “garantita”.
Ratzinger, a questo proposito, faceva notare che siamo comunque in attesa; che il nostro cuore domanda e attende la salvezza, e anche la Chiesa, che pure gode dei doni della presenza di Cristo nella Parola e nei Sacramenti, è comunque in cammino nella storia, verso l’avvento definitivo, di Cristo, «che prenderà possesso di tutto e in tutto. Ciò significa» – aggiungeva l’allora Prefetto della Congregazione della dottrina della fede – «che il cristianesimo è di per sé un movimento, perché va incontro al Signore risuscitato che è salito al Cielo e ritornerà.
E’ questa la ragione per la quale il cristianesimo porta in sé sempre la struttura della speranza».
Soprattutto quest’ultima frase mi sembra suggestiva. Perché quando ci imbattiamo in chi ha il dono gratuito della fede, come quelli che Papa Francesco ha definito i «santi della porta accanto» (Gaudete et esultate 7) – ed esemplifica: «i genitori che crescono con tanto amore i loro figli, gli uomini e le donne che lavorano per portare il pane a casa, i malati, le religiose anziane che continuano a sorridere» (ib.) – ci accorgiamo che loro vivono e testimoniano quel dono non come un possesso acquisito per sempre, con la pretesa di esserne diventati quasi padroni, ma come un dono che dipende ad ogni passo dalla grazia di Cristo e del suo Spirito. Un dono da vivere “in speranza”, «in spe», come insegnava sant’Agostino.
La globalizzazione dell’indifferenza
Oggi, anche la speranza cristiana è chiamata a vivere nella nostra condizione attuale, segnata in profondità dai processi di globalizzazione e apparente unificazione del mondo. In questo contesto, Papa Francesco, con una delle sue intuizioni, ha utilizzato questa espressione così efficace, così fulminante nella sua sintesi: la Globalizzazione dell’indifferenza.
Se non sbaglio, da Papa l’ha utilizzata per la prima volta durante la messa a Lampedusa, dove era andato l’8 luglio di 6 anni fa, per pregare per i tanti morti nel Mediterraneo nel tentativo di raggiungere una vita migliore.
In quell’omelia, il Papa disse che «la cultura del benessere ci fa «vivere in bolle di sapone», nella «illusione del futile, del provvisorio, che porta all’indifferenza verso gli altri, anzi porta alla globalizzazione dell’indifferenza. In questo mondo della globalizzazione» – ripetè Papa Francesco quella volta – «siamo caduti nella globalizzazione dell’indifferenza. Ci siamo abituati alla sofferenza dell’altro, non ci riguarda, non ci interessa, non è affare nostro». Poi, aveva aggiunto che tanti di noi, incluso lui stesso, «siamo disorientati, non siamo più attenti al mondo in cui viviamo, non curiamo, non custodiamo quello che Dio ha creato per tutti e non siamo più capaci neppure di custodirci gli uni gli altri».
Permettetemi di fare un rapido riferimento alla parabola del Buon Samaritano che abbiamo ascoltato ieri nel Vangelo domenicale. Per descrivere l’atteggiamento dei primi due personaggi, il sacerdote e il levita, che, scendendo per il sentiero, vedono il poveretto incappato nei briganti steso a terra. Gesù usa un’espressione terribile: «passarono oltre». Videro e passarono oltre.
Quante volte anche oggi molti “passano oltre” davanti ai tanti bastonati che incontrano: quanti potenti, che dovrebbero intervenire ad alleviare le sofferenze dei fratelli, “passano oltre” di fronte ai tanti drammi del mondo; e forse anche a noi capita a volte di “passare oltre” davanti alle persone vicine che ci chiedono aiuto: un po’ di tempo e di affetto, un sorriso, qualche segno di accoglienza. Possiamo dire che l’espressione “globalizzazione dell’indifferenza” traduce, in termini attuali quel vedere e passare oltre della parabola del Buon Samaritano: «Quasi senza accorgercene, diventiamo incapaci di provare compassione dinanzi al grido di dolore degli altri, non piangiamo più davanti al dramma degli altri né ci interessa curarci di loro, come se tutto fosse una responsabilità a noi estranea che non ci compete» (Evangelii Gaudium n. 54).
La stessa espressione si ritrova ancora sei anni dopo, nel Messaggio del Papa per la Giornata Mondiale del Rifugiato 2019, dove si chiama in causa «l’accentuato individualismo» nelle società avanzate» che «unito alla mentalità utilitaristica e moltiplicato dalla rete mediatica, produce la «globalizzazione dell’indifferenza». Uno scenario in cui «i migranti, i rfügiati, gli sfollati e le vittime della tratta sono diventati emblema dell’esclusione perché, oltre ai disagi che la loro condizione di per sé comporta, sono spesso caricati di un giudizio negativo che li considera come causa dei mali sociali».
L’espressione della globalizzazione dell’indifferenza sembra quasi un ossimoro (suona cioè come una contraddizione). La globalizzazione, infatti, a volte viene presentata da qualche osservatore entusiasta come un processo volto a unificare il mondo, a accorciare ogni distanza, per avvicinare i destini degli uomini e dei popoli in un unico sistema globale, in cui tutto appare connesso.
Pensiamo a internet, pensiamo ai meccanismi dell’economia che concepiscono il mondo come un unico sistema dove far girare i capitali, le merci, la forza lavoro. Eppure, questo sistema unificante, questo processo di unificazione, lasciato a se stesso e alla sua pretesa auto-sufficienza, può diventare – e di fatto spesso, diventa – funzionale a rendere globale l’indifferenza o lo sfruttamento degli uni sugli altri.
La Sacra Scrittura, con il racconto degli uomini che sì uniscono per costruire la Torre di Babele, ci ha dato un’immagine profetica di un progetto di unificazione che si afferma solo come tentativo generato dalla presunzione umana, dalla pretesa di auto-sufficienza, dal disegno di “costruire” il mondo dimenticando il proprio limite. Un impulso che, in passato, ha nutrito altri imperi, e altre ideologie. Un impulso che era stato colto poeticamente dal genio cristiano di Thomas Eliot, quando parlava degli uomini che «cercano sempre d’evadere! dal buio esterno e interiore/ sognando sistemi talmente perfetti! che più nessuno avrebbe bisogno d’essere buono» (F. S Eliot, Cori da “La Rocca”).
Papa Francesco, con le sue parole, con il suo magistero, ripropone anche lo sguardo critico e nel contempo non ostile “a priori” che la Chiesa ha espresso per tutti i tentativi e le costruzioni umane di unità apparsi sulla scena del mondo, «la cui figura passa», come confessava San Paolo VI nel Credo del Popolo di Dio.
In questi anni, l’attuale Vescovo di Roma ha colto e descritto con tante immagini efficaci i meccanismi, le forme e gli strumenti con cui può espandersi una omologazione disumanizzante, che penetra impercettibilmente le nostre vite. Pensiamo alle sue tante considerazioni sul sistema economico globale, quando ha parlato della «economia che uccide» e ha ripreso tante volte anche la formula di Papa Pio XI, che già nella enciclica Quadragesimo Anno aveva denunciato «l’imperialismo internazionale del denaro», per cui la patria è li dove c’è guadagno.
«Una delle cause di questa situazione si trova nella relazione che abbiamo stabilito con il denaro, poiché accettiamo pacificamente il suo predammo su di noi e sulle nostre società. La crisi finanziaria che attraversiamo ci fa dimenticare che alla sua origine vi è una profonda crisi antropologica: la negazione del primato dell’essere umano! Abbiamo creato nuovi idoli L’adorazione dell’antico vitello d’oro (cfr Es 32,1-35) ha trovato una nuova e spietata versione nel feticismo del denaro e nella dittatura di una economia senza volto e senza uno scopo veramente umano. La crisi mondiale che investe la finanza e l’economia manifesta i propri squilibri e, soprattutto, la grave mancanza di un orientamento antropologico che riduce l’essere umano ad uno solo dei suoi bisogni: il consumo» (Evangelii Gaudium n. 55).
E possiamo pensare anche alle osservazioni critiche che Papa Francesco ha fatto su internet, sulla rete digitale, che si presenta come risorsa per unire, per comunicare, per avvicinare, e poi si rovescia facilmente in strumento di manipolazione. Credo che sia esperienza di tutti la constatazione che la rete, di per sé, non è una entità salvifica, e che può diventare strumento di istupidimento di massa, veicolo in cui si finisce spesso per comunicare il peggio di noi stessi, un labirinto dove ci perdiamo dietro a cose inutili e tossiche.
Al di là dei sintomi, delle manifestazioni e degli effetti, vorrei sottolineare che Papa Francesco ha anche suggerito tante volte quale è la radice ultima della globalizzazione dell’indifferenza. II ripiegamento su di sé, la pulsione a ripiegarsi in se stessi, che Papa Francesco chiama anche autoreferenzialità e che è un fenomeno implicato nella nostra condizione storica, segnata dal peccato originale.
Nasciamo tutti con una attesa di felicità inscritta nel cuore, ma questa apertura, questa domanda, è ferita, con tutte le nostre facoltà e dinamiche naturali. Così, alla lunga, anche gli slanci buoni spesso possono ripiegarsi e di fatto si ripiegano su se stessi. Il proprio ego, i propri impulsi diventano l’unica realtà, che cancella tutto l’orizzonte.
E la sudditanza a questi impulsi auto-referenziali, al fascio di bisogni artificiali fomentati spesso dal potere e dal conformismo sociale diventa il circolo vizioso che produce piccole grandi soddisfazioni da bruciare in continuazione per sentirsi appagati e a posto.
Così alla lunga, la apertura e l’attesa del cuore si rattrappisce, il ripiegamento arriva a plasmare anche il vissuto quotidiano e le relazioni con gli altri, fino a cristallizzarsi nella diffusa «cultura dello scarto», anche essa tante volte richiamata da Papa Francesco. Un approccio “consumista” alle cose e al mondo che finisce per considerare anche gli esseri umani come parassiti da sopprimere o scorie da scartare, quando sono di peso, non sono utili ai nostri tornaconti o non sono funzionali al sistema economico e produttivo dominante.
Rileggiamo il n. 53 della Evangelii Gaudium «Così come il comandamento “non uccidere» pone un limite chiaro per assicurare il valore della vita umana, oggi dobbiamo dire “no a un’economia dell’esclusione e della inequità”. Questa economia uccide. Non è possibile che non faccia notizia il fatto che muoia assiderato un anziano ridotto a vivere per strada, mentre lo sia il ribasso di due punti in borsa. Questo è esclusione. Non si può più tollerare il fatto che si getti il cibo, quando c’è gente che soffre la fame. Questo è inequità.
Oggi tutto entra nel gioco della competitività e della legge del più forte, dove il potente mangia il più debole. Come conseguenza di questa situazione, grandi masse di popolazione si vedono escluse ed emarginate: senza lavoro, senza prospettive, senza vie di uscita. Si considera l’essere umano in se stesso come un bene di consumo, che si può usare e poi gettare. Abbiamo dato inizio alla cultura dello «scarto» che, addirittura, viene promossa.
Non si tratta più semplicemente del fenomeno dello sfruttamento e dell’oppressione, ma di qualcosa di nuovo: con l’esclusione resta colpita, nella sua stessa radice, l’appartenenza alla società in cui si vive, dal momento che in essa non si sta nei bassifondi, nella periferia, o senza potere, bensì si sta fuori. Gli esclusi non sono «sfruttati» ma rifiuti, “avanzi”». «Bisogna rafforzare la consapevolezza che siamo una sola famiglia umana. Non ci sono frontiere e barriere politiche o sociali che ci permettano di isolarci, e per ciò stesso non c’è nemmeno spazio per la globalizzazione dell’indifferenza» (Laudato sii, n. 52).
La “profezia” di Papa Francesco
Davanti a questo scenario, il magistero di Papa Francesco è chiaro e concreto quando documenta gli effetti di sofferenza e fatica prodotti a ogni livello da processi e fenomeni legati alla globalizzazione dell’indifferenza. Ma la strada da lui indicata non è quella del lamento, o della condanna auto-compiaciuta. E non si tratta nemmeno di fuggire o tirarsi fuori dal mondo così com’è, con la sua indifferenza globale. Non si tratta di prendere distanze ascetiche dal miscuglio di buoni propositi e ripiegamenti egoisti che scandiscono la vita ordinaria di tutti. Non si tratta di condannare internet, o di lanciare anatemi contro la globalizzazione.
Mentre offre a tutti le sue considerazioni e intuizioni critiche, Papa Francesco riconosce e attesta anche che dalla globalizzazione dell’indifferenza non si esce da soli, in virtù dei propri sforzi di volontà – che è sempre fragile – o grazie a colpi di idealismo, a slanci e progetti idealistici.
La «profezia» di Papa Francesco, se così vogliamo chiamarla, è per certi versi semplice-semplice e sta nella riproposizione dell’annuncio e della promessa del cristianesimo nei suoi termini più elementari.
Gli uomini attendevano e attendono la felicità, la salvezza, la liberazione, ma non sono in grado di darsele da soli. Chi pensa di scalare da solo il cielo in forza delle sue risorse, finisce per seguire ambizione e presunzione e spesso la torre che prova a costruire coi propri sforzi, anche nobili, ricade su sé stessa.
Accade però che nella vicenda della storia umana fa irruzione un fatto nuovo, imprevisto. venuto Gesù, e «ha fatto il cristianesimo» (come dice il poeta Charles Peguy). Così, succede che la felicità e la salvezza possono essere un dono gratuito, non sono più il premio da conseguire attraverso ricerche e cammini religiosi riservati agli illuminati, che degradano spesso in presunzione settaria e clericale. È il mistero stesso, che viene incontro all’uomo. Cristo stesso che ci anticipa, «viene prima». lui che ci previene e ci guarda per primo, che ci prende in braccio, che ci attira a sé.
Per chiunque segue un poco le omelie e i testi di Papa Francesco, è facile riconoscere che il suo magistero è tutto intessuto intorno all’annuncio dell’operare della grazia, il gesto del Signore che “viene prima”, che «primerea», come ha detto spesso proprio lui, inventando un neologismo.
Già nel 2001, presentando un libro a Buenos Aires, l’allora Cardinale Jorge Mario Bergoglio aveva indicato proprio in questo “primerear” della grazia la sorgente dell’avvenimento cristiano, di come si diventa e si rimane cristiani. Allora, aveva detto: «L’incontro accade. Che Dio esiste lo si può provare, però attraverso la via del convincimento mai potrai ottenere che qualcuno incontri Dio. Questo è pura grazia. Nella storia, da quando è iniziata fino al giorno d’oggi, sempre primerea la grazia, sempre viene prima la grazia, poi viene tutto il resto».
E questa promessa di felicità imparagonabile, questa caparra di salvezza pregustata nella propria vita, qui, su questa terra, è la forza che può far uscire ognuno di noi dal proprio ripiegamento su di se, e anche dalla propria indifferenza globale e globalizzata.
Se uno sperimenta nella sua vita la carezza del Signore che guarisce la ferite, da quella esperienza può fiorire la gratitudine. E quando uno è portato, trasportato dalla gratitudine, può compiere azioni gratuite nei confronti degli altri. Sia i propri cari, i propri vicini (pensiamo ai tanti gesti di gratuità di cui è intessuta la vita quotidiana e intima di ogni famiglia). E poi, la stessa dinamica di gratuità può abbracciare anche i lontani, quelli che non conosciamo e che si trovano nel bisogno.
Senza alcun automatismo, non per apparire migliori degli altri e assumere pose da altruisti, ma perché la stessa grazia risanante di Cristo fa fiorire le opere di misericordia di quelli che l’hanno sperimentata, di quelli che ne hanno fatto esperienza, e in esse si manifesta.
«La comunità evangelizzatrice» ha scritto Papa Francesco nella Lettera apostolica Evagelii gaudium, il documento “programmatico” del suo pontificato «sperimenta che il Signore ha preso l’iniziativa, l’ha preceduta nell’amore, e per questo essa sa fare il primo passo, sa prendere l’iniziativa senza paura, andare incontro, cercare i lontani e arrivare agli incroci delle strade per invitare gli esclusi. Vive un desiderio inesauribile di offrire misericordia, frutto dell’aver sperimentato l’infinita misericordia del Padre e la sua forza diffusiva». (n. 24).
Anche le immagini e le espressioni più abituali usate da Papa Francesco per suggerire il volto più intimo della stessa Chiesa rinviano a questo mistero di grazia. Quando il Successore di Pietro paragona il volto della Chiesa al «mysterium lunae”, il mistero della luna, riprende un’immagine già usata da alcuni Padri della Chiesa, secondo i quali la Chiesa rispende non di luce propria, ma della luce riflessa della grazia e del volto di Cristo, proprio come la luna, il satellite opaco che risplende della luce riflessa del sole. E quando Papa Bergoglio ripete che la Chiesa è un ospedale da campo, vuole suggerire che la Chiesa può accogliere e curare i feriti della vita perché a sua volta ha sperimentato su di sé la guarigione e la custodia operata da Cristo stesso.
La gratuità che ha questa sorgente è l’unica dinamica che davvero non può essere spenta o assorbita da nessuna globalizzazione dell’indifferenza. Questa gratuità non può «montare in superbia”, e non guarda con disprezzo chi non è capace di gesti gratuiti, proprio perché nasce come riflesso della grazia, nasce dalla gratitudine che rende umili, e non come sforzo o come posa da persone che vogliono apparire come moralmente superiori. In essa si riflette il mistero della carità, che la Chiesa ha sempre indicato come la virtù in cui è in atto, operante, la grazia dì Cristo. «Quando sono caritatevole» scrive Santa Teresa di Lisieux «è solo Gesù che agisce in me».
La carità e la sollecitudine verso chi è in difficoltà e in sofferenza non viene -prodotta artificialmente da nessun programma, da nessuna teoria «eticista». E questo – sia detto per inciso – va tenuto presente anche per ciò che Papa Francesco ripete con insistenza riguardo ai rifugiati, ai profughi, ai migranti che vanno guardati come persone e non numeri di emergenze sociali o umanitarie.
Quando il Papa ripete queste cose, qualcuno sembra irritarsi. Ma la carità è il cambiamento che nasce gratuitamente dall’operare della grazia nei cuori di chi segue Cristo. E se è così, credo che non si può pensare dì presentarsi come portatori della visione cristiana della vita, teorizzando nello stesso tempo che gli effetti di questo cambiamento, in cui Dio stesso è all’opera («ubi Caritas, ibi Deus») sono socialmente o politicamente d’intralcio, mentre sarebbe più consono alla situazione presente voltarsi dall’altra parte, quando ci sono fratelli e sorelle in condizione di bisogno e sofferenza.
Vorrei aggiungere che proprio la premura del Papa per gli scartati e i sofferenti, e per gli effetti globali devastanti della «cultura dello scarto», aprono spazi di simpatia e vicinanza collaborativa, abbracciano con simpatia tutti i tentativi sinceri di custodire i tratti più elementari di umanità e di compassione con chi è nel bisogno, da qualunque parte essi provengano. E anche i potenti del mondo e i capi delle nazioni – di questo sono testimone diretto – si sentono provocati e mossi dalle sollecitazioni di Papa Francesco a provare a camminare insieme come famiglia umana, a cercare insieme iniziative e soluzioni condivise per provare a custodire il mondo e gli uomini e le donne da spirali autodistruttive che incombono sul presente e sul futuro di tutti (prefigurate anche nell’enciclica Laudato si’).
Pensate, per esempio, alla dichiarazione comune sulla Fratellanza umana firmata da Papa da Francesco con il Grande Imam dell’Università islamica sunnita di al Azhar, per ripetere insieme all’alto esponente islamico sunnita che «Dio, l’Onnipotente, non ha bisogno di essere difeso da nessuno e non vuole che il Suo nome venga usato per terrorizzare la gente» e per lanciare l’allarme riguardo alle «politiche di fame, di povertà, di ingiustizia, di oppressione».
Pensate anche alla cura manifestata in questi anni nel tenere aperti canali di dialogo con tutti, dagli Usa dì Trump alla Russia di Putin, dalla Cina di Xi Jinping aWlran di Rohani e aWLsraele di Netanyahu. Collaborando con nazioni diverse, che a volte sono anche in conflitto tra loro, per cercare soluzioni ai conflitti e politiche comuni per arginare fenomeni insidie che ci minacciano tutti, come l’emergenza ecologica o il traffico di armi.
Postila sulle periferie
A questo punto, visto che il filo conduttore di questi “lunedì di Viserba” sono le periferie, vorrei concludere su questo, richiamando immagini care a Papa Francesco che forse aiutano anche a chiarire e a liberarsi da certi cliché un po’ fuorvianti riguardo alle. parole e all’insegnamento del Papa.
Quando Papa Francesco ha parlato di “centro» e di “periferia”, ha sempre ripetuto che le cose, dalla periferia, si vedono meglio.
L’andare verso le periferie, così come ne parla il Papa, non esprime mai un volontarismo auto-compiaciuto. Tale movimento può anche prendere spunto da uno slancio di generosità, ma poi questo “andare” trova il suo movente tenace e prevalente in una certa attrazione, e anche, se così si può dire, in una certa convenienza. Essere decentrati “conviene». Così ripete il Papa.
I poveri gli ultimi, gli “scartati, non soltanto non possono essere ridotti a meri numeri e statistiche di fenomeni sociali. C’è qualcosa di più: essi sono i prediletti del Signore, in termini oggettivi. In questa oggettiva predilezione risplende già la loro dignità.
E chi si avvicina a loro magari pensando, anche con buone intenzioni, di voler rendersi utile, di volersi piegare su chi sta più in basso per aiutarlo, poi spesso può imbattersi in questo mistero di predilezione, e rimanerne attratto e stupito.
Nel 2015, Papa Francesco aveva ripetuto che «la realtà si vede meglio dalla periferia che dal centro». Lo aveva fatto in un’intervista concessa a un bollettino parrocchiale di Villa la Càrcova, baraccopoli della Gran Buenos Aires. Lì Papa Bergoglio aveva spiegato che «normalmente noi ci muoviamo in spazi che in un modo o nell’altro controlliamo, e questo è il centro. Mentre nella misura in cui usciamo dal centro e ci allontaniamo da esso, scopriamo più cose».
Proprio l’esperienza dei sacerdoti (curas villeros) delle villas miseria (baraccopoli) di Buenos Aires, apprezzati e sostenuti dall’Arcivescovo Bergoglio, è per certi versi paradigmatica.
Quei sacerdoti e i loro collaboratori non andavano a vivere nelle periferie urbane con l’atteggiamento di chi si china sui derelitti per portare a loro qualche piano o qualche strategia pastorale elaborata in qualche laboratorio teologico del centro. Non erano e non sono loro a andare in periferia per «portare Cristo”, ma piuttosto vanno in periferia perché li può capitare anche a loro, con più facilità. Di «incontrare Cristo», già presente e operante tra i suoi prediletti. Tra i poveri cristi che vivono anche il battesimo come un dono inestimabile che li rende tutti principi e principesse, tutti “figli del Re”. Proprio lì, in luoghi così malmessi e così infausti. Si percepisce che la grazia di Cristo può guarire vite ferite e spezzate. Può far fiorire un tessuto di vita buona, anche nelle situazioni più impensabili.
E allora conviene trovarsi li, per vedere passare e operare Gesù, come fece Zaccheo, che era basso e per veder passare Gesù salì sull’albero del sicomoro. E la sua vita cambiò quando si accorse di essere guardato dal Signore. «Alcuni» scrisse una volta il Cardinale Bergoglio, commentando proprio l’episodio evangelico dell’incontro tra Gesù e Zaccheo «credono che la fede e la salvezza vengano col nostro sforzo di guardare, di cercare il Signore. Invece è il contrarlo: tu sei salvo quando il Signore ti cerca, quando Lui ti guarda e tu ti lasci guardare e cercare. Il Signore ti cerca per primo. E quando tu Lo trovi, capisci che Lui stava là guardandoti, ti aspettava Lui, per primo».
Così, nella premura con cui il Papa invita tutti a guardare alle periferie geografiche e esistenziali si concretizza la predilezione per i poveri che segna come tratto genetico l’annuncio cristiano, e viene custodita da tutta la Tradizione della Chiesa. Perché da sempre la Chiesa confessa che la predilezione di Dio per i piccoli e i poveri è anche il metodo con cui la sua salvezza può raggiungere tutti, passando da persona a persona.
E già Sant’Agostino faceva notare che Dio aveva preferito un povero pescatore, che non contava nulla, per far arrivare la sua salvezza anche agli imperatori, ai senatori e agli intellettuali. In modo che fosse ancora più evidente e brillasse di più la gratuità del suo dono (Agostino, Senno 43, 6).