La toria di una terra che fu. Le abitudini di una civiltà rurale e contadina, dove la linearità e l’ordine significano e indicano. Nelle antiche borgate rurali del primo novecento, ogni cosa occupa un posto, e ogni posto ha il suo significato orientativo. Case, strade e alberi sono lì, sempre lì a segnalare la presenza umana di gruppi uniti intorno alle famiglie, intorno ai lavori nei campi.
Ne “I ghetti del colle. Consuetudini novecentesche nelle borgate rurali del più famoso colle riminese: il Covignano”, Alessandro Buda, insegnante di lettere, ricercatore all’estero, saggista e scrittore, esprime un atteggiamento critico nei confronti di un sistema che tende a dimenticare il passato, favorendo una cultura del “last minute” (all’ultimo minuto). Così, da appassionato e da cultore delle tradizioni delle terre di Romagna nel periodo a cavallo tra l’età moderna e quella contemporanea, Buda descrive minuziosamente le attività routinarie di una vita normale: la quotidianità del ghetto del colle Covignano.
“Questo breve scritto – spiega l’autore – non ha l’intento, ed ancor meno la pretesa, di annoverare meticolosamente ed in modo categorico le innumerevoli vicende novecentesche, i nomi ed i ricorrenti toponimi dialettali compresi nell’area del colle di Covignano (cosa che d’altra parte risulterebbe pressoché impossibile) ma di illustrare, nella sua semplicità espositiva, un quadro di storie ed episodi capaci, nel loro complesso, di sollecitare sempre nuove ricerche, osservazioni ed approfondimenti su un argomento altrimenti poco discusso dalla storiografia locale e di cui i giovani, i piccoli scolari ed anche coloro ormai adulti perderebbero la memoria”.
Risale all’età classica, la traccia del passaggio di persone -occasionali, passanti o vicini residenti – sulla prima collina di Rimini, quella che geograficamente e culturalmente è più vicina al territorio riminese. Una prossimità che si fece sentire anche nei periodi successivi, quando nel medioevo il colle continuò a crescere. Una crescita non del tutto legata al caso ma al fatto che ai piedi del piccolo colle ci fossero delle importanti arterie di comunicazione – seppure in terra battuta. Stiamo parlando della via che andava verso il territorio sammarinese, e quella che invece si dirigeva verso Verucchio e l’entroterra del Montefeltro.
Certo è che prima dell’età moderna e poi di quella contemporanea, sul colle non v’era traccia di ruralità contadina, eccezion fatta per la grande casa del proprietario terriero. Solo in seguito, infatti, attraverso i lavori stagionali sui campi, si cominciarono a vedere delle abitazioni di fortuna, dapprima semplici ripari e ricoveri improvvisati e in seguito (seppur con poco cura estetica) più stabili e definiti.
Siamo nel periodo settecentesco e ottocentesco, quando timidamente si cominciarono a vedere dei piccoli agglomerati urbani. Sulla posizione e collocazione dell’insieme di casupole, Buda spiega: “Questi piccoli agglomerati residenziali, quasi impercettibili casupole immerse nel territorio ed in seguito addossate tra loro come gli acini in un grappolo d’uva, trovarono progressiva collocazione in luoghi non certo scelti casualmente. Si trattava, come prevedibile, di aree sia favorevoli al sostentamento collettivo che ad un eventuale transito. Frequentate piazzole di sosta, luoghi privilegiati dalla presenza di una sorgente e spiazzi posti lungo le note carrozzabili che delimitavano le propaggini del colle sia sul versante meridionale che su quello rivolto verso l’aperta pianura romagnola. Nemmeno si poteva escludere da alcuni di questi luoghi l’influenza, come qualcuno racconta, di una preesistente notorietà sei e settecentesca decretata dai ritmi della mobilità stagionale nei campi o da semplici consuetudini locali”.
Qui la vita scorreva semplice, anche se esisteva all’interno una certa diversità tra i contadini e i piccoli proprietari, per i cittadini erano tutti “bifolchi” ovvero cuntadein. Dentro il ghetto la vita trascorreva tra i luoghi di ritrovo, le piazzole di incontro e di“chiacchiera”, le fontane o i fossi dove le donne si riunivano per lavare i panni. La vita contadina prevede dei periodi morti, specialmente nel periodo invernale. Era in queste occasioni che si dedicava più tempo ai piccoli lavori casalinghi dall’intagliare gli attrezzi all’impagliare sedie e sgabelli con foglie secche.
Davanti agli spacci alimentari (Mavos e Grotta Rossa) si trovava di tutto, specialmente le chiacchiere delle massaie.
“Le famiglie si ritrovavano periodicamente, a sera inoltrata, in alcune abitazioni per fare quello che si rivelava simile, se non identico alla classica “veglia” contadina con quel tipico contorno di chiacchiere e pettegolezzi. È poi possibile immaginarsi, durante la giornata, il vocio dell’abitato, le notizie riportate dalle donne al ritorno dal “mezzo servizio”, o “servizio intero” con pernottamento in città o nelle dimore signorili del colle. Andava così consolidandosi una certa solidarietà tra quegli abitanti anche se, ogni tanto, qualche casanolsi appropriava di una gallina allontanatasi troppo dall’aia altrui”.
Il quotidiano
In piena Bella Epoque Rimini vive la sua crescita edilizia, soprattutto nella zona della Marineria. Ma le condizioni igieniche delle abitazioni non potevano dirsi felici. Qui come nei ghetti nessuna abitazione era provvista di servizi igienici. Una situazione che poneva ancora di più l’accento su una povertà di fondo, che spingeva le famiglie a fare i salti mortali per riempire i piatti in tavola o per provvedere al vestiario di tutti i componenti della famiglia. Così gli armadi erano scarni, i vetiti scuri e poco fantasiosi. Capitava non di rado di imbattersi in gente malformata a causa della cattiva alimentazione.
Momento cruciale nella vita del ghetto era il lavaggio dei panni, sia di quelli “preziosi” della domenica, che di quelli più ingombranti, come le lenzuola. Per lavare si usava la creta e il sapone comprato a bottega o ancora la cenere utilizzata soprattutto per il lavaggio dei “bianchi”. Il sistema di lavaggio, chiamato “ran”, consisteva nella sistemazione dei panni in un grande mastello che veniva poi ricoperto da cenere e bagnato con acqua bollente. Il procedimento veniva realizzato più volte e poteva durare anche una notte intera. L’acqua utilizzata veniva riciclata per lavare i panni colorati. Un sistema simile, sempre utilizzando la cenere, veniva impiegato per il lavaggio dei capelli delle signore.
Crudele vita
di ghetto
Nel ghetto non tutto era rose e fiori. Capitavano spesso degli screzi, specialmente nel Castellaccio, che non godeva di buona fama, tanto che anche il parroco temette per quelle anime che all’andare in chiesa preferivano altre attività. Non mancavano le liti, i disguidi e i furti notturni, specialmente ad opera delle donne che, armate di falcetto avevano come unico obiettivo quello di sfamare i figli. E di figli se ne facevano tanti nel ghetto, con una cura particolare all’istituzione della famiglia e rituali annessi.
I divertimenti
Quello della sala da ballo era il luogo che nell’immaginario collettivo dei ragazzi di campagna creava più aspettative di svago ma soprattutto d’evasione. Queste sale si potevano trovare nei piani terra delle abitazioni o in un semplice piazzale addobbato per l’occasione. Sta di fatto che a ballare ci andavano proprio tutti, anche se i parroci ne intimavano la pericolosità. In quei pomeriggi di domenica c’era l’organo, la chitarra e il violino e si ballava sino a quando c’era luce, perché non sembrava opportuno sprecare il petrolio per queste cose. Naturalmente durante la festa non mancavano le liti e le azzuffate, soprattutto per accaparrarsi il ballo della donna più carina del paese.
E va avanti secondo questa cifra, l’autore, descrivendo il particolare ma anche il contesto storico nel quale tutte queste cose si consumano; accompagnando i racconti con suggestive foto d’epoca che ritraggono luoghi e personaggi, come in un vero e proprio racconto.
Nella narrazione di questa lunga storia, si passa dalla descrizione della scuola in epoca fascista, alla difficoltà di trovare legna per riscaldarsi, senza dimenticare la povertà, l’impossibilità di comprarsi delle scarpe, che – quando c’erano – erano proprietà della famiglia e non del singolo; Si narrano, poi, i cambiamenti politici dell’Italia e le due guerre che hanno stravolto il volto di quei luoghi. “Gli anni ’40 si stavano lentamente avvicinando e nel decennio precedente, la città di Rimini aveva insistentemente pubblicizzato i suoi stabilimenti balneari al di fuori della provincia ma, nonostante questi sprazzi di modernità, la popolazione continuava a risiedere in spazi circoscritti, quasi angusti. Nei ghetti, la povertà e l’alto numero dei familiari costringeva alla convivenza gruppi sempre più numerosi”.
Poi le cose cambiarono, l’Italia attraversò quel periodo d’oro che fu il boom economico e tra il 1960 e il 1970 anche i ghetti del colle ebbero il loro boom. I giovani cominciarono a lasciare le famiglie, preferendo la città alla campagna.
“L’inizio del XXI secolo rese a tutti ben evidente che l’espansione urbanistica, ben lungi da necessità reali, avveniva sotto l’incalzare della volontà di investire in spazi ancora aperti. Tutti i ghetti del Covignano subivano modifiche più o meno evidenti e solo l’impronta originale del Mavos e dei Casetti rimaneva ancora sorprendentemente intatta nonostante il maquillage contemporaneo. Nel gennaio del 2007, un inverno straordinariamente mite, le strette viuzze di quest’ultimo venivano osservate, quasi come se il tempo si fosse fermato, dal vicino casolare di Zilarin, l’ultimo vecchio contadino lì nei pressi ancora in attività”.
Angela De Rubeis