Una Casa speciale. In cui tutti si fanno carico dei processi di accoglienza dei minori, ciascuno secondo la propria specificità costruendo reti di prossimità a partire dalle risorse del territorio (scuola, formazione professionale, centri di aggregazione giovanile…) e in cui tutta la società (dalla politica ai singoli cittadini) si mostri accogliente e inclusiva. Perché “non sempre possiamo essere determinanti nella vita dei ragazzi che accogliamo, ma possiamo essere come una freccia, capaci di indicare una direzione. E questo è già tanto” sottolinea il professor Andrea Canevaro. Di questa “casa” così speciale si è parlato nell’aula magna della Scuola di Psicologia e Scienze della Formazione. Una giornata di studi dove si è discusso di processi di residenza e modelli educativi, di accoglienza e presa in carico dei minori che vivono fuori dalla famiglia e di sostegno alla genitorialità complessa. Un campo di intervento in cui la ricerca universitaria e l’esperienza educativa di realtà come la Fondazione San Giuseppe entrano in sinergia e diventano ascolto e accoglienza del disagio minorile. Abbiamo incontrato due delle principali personalità che con il loro operato incarnano questo atteggiamento di attenzione e accoglienza del disagio: Elena Malaguti, docente di Didattica e Pedagogia Speciale e referente del progetto, e Silvia Sanchini, Direttrice della Fondazione San Giuseppe di Rimini.
Professoressa Malaguti, come è nata l’idea di svolgere un progetto di ricerca dedicato al tema dell’accoglienza dei minori?
“Il progetto nasce dal desiderio di analizzare la qualità di vita dei ragazzi che sono in affido etero famigliare, di comprendere come funzionano i modelli di presa in carico del minore, capire secondo quali modalità sia possibile allacciare un rapporto con la famiglia d’origine e infine cercare di costruire una società che sia accessibile e inclusiva”.
Quante sono oggi le realtà aattive in questo campo a Rimini? E qual è il parere dei ragazzi nei confronti di chi li accoglie?
“Attualmente ci sono 58 famiglie affidatarie, cioè coppie o singoli che accolgono minori, 14 case famiglia e 7 strutture residenziali. Per quanto riguarda il parere dei ragazzi, si è cercato di lavorare con loro, stimolando la loro partecipazione anche attraverso l’organizzazione di focus group, momenti di discussione in cui ogni singolo partecipante è chiamato a prendere parola. Da questi dibattiti sono emersi pareri generalmente positivi. Meno positive le loro impressioni riguardo le risorse esterne, cioè verso le figure di riferimento e gli ambiti sociali con cui quotidianamente giungono a contatto”.
Come viene considerata oggi la figura dell’educatore sociale?
“La percezione che le educatrici e gli educatori hanno della loro attività è alta. Sono consapevoli dell’importanza del loro ruolo. Allo stesso tempo constatano la scarsa considerazione professionale che la società nutre nei loro confronti”.
Dottoressa Sanchini, Rimini oggi sa accogliere ed integrare i minori più disagiati?
“Rimini è da sempre vista solo come meta del divertimento e dello sballo. In realtà ha un volto molto accogliente. Nella nostra esperienza con i ragazzi abbiamo trovato un territorio che ha allargato le sue braccia. Spesso, però, è stato un abbraccio non sinergico. Molte volte manca una connessione di fondo tra le varie figure che seguono i percorsi di accoglienza e di inserimento. C’è la tendenza a svolgere il proprio lavoro con efficienza senza, però, avere uno sguardo d’insieme ed intessere un dialogo coeso che leghi le varie realtà attive nel settore. Gli interventi rischiano così di essere un po’ frammentari”.
Viviamo in una società che culla il mito della perfezione, del massimo rendimento, in cui gli individui tendono a nascondere le proprie debolezze.
Quali conseguenze negative può avere sui giovani questa tendenza? Come fare per invertire la rotta?
“La società è in rapido mutamento. I modelli proposti dai media rischiano di avvilire i giovani, di farli sentire inadeguati, deboli. Questo vale anche per gli educatori. La crisi economica acuisce la percezione negativa di sè. Bisogna avere coscienza di questa realtà. Tuttavia l’educatore non deve rappresentare una risoluzione diretta dei problemi del ragazzo. Il suo compito è quello di indicare la strada da percorrere. L’educatore rappresenta una freccia che indica al ragazzo che c’è un’altra direzione possibile. Questa concezione ci aiuta a reagire, ad allargare lo sguardo verso un orizzonte di speranza, spesso controcorrente rispetto agli stili di vita diffusi. Il passo successivo spetta al ragazzo, stimolato ad attuare una propria scelta tra le prospettive che gli vengono offerte”.
Giacomo Vaccari