Lo sferragliare di una chiave in una porta metallica, un lungo corridoio attorniato da numerose stanze, guardie appostate sui torrioni per vigilare chi gioca in basso. Il calcio può essere anche questo. Anche se questa volta lo stadio militarizzato delle partite di cartello non c’entra. Perché qui siamo in un carcere dove si gioca a pallone quasi 365 giorni all’anno. E i giocatori non sono degli eroi, ma ragazzi che hanno sbagliato con la società e con le sue regole, e ora stanno pagando per questo. C’è modo e modo per raccontare una storia di calcio e prigione. Il giornalista Francesco Ceniti ha scelto la più impegnativa, ma senza dubbio la più umana: quella della condivisione. Un carcere nel pallone (Laruffa editore, 2008, pp. 224, euro 15, prefazione di Candido Cannavò) non è solo la cronaca di una squadra un po’ particolare, il Freeopera, ma la condivisione di alcuni mesi vissuti insieme a un gruppo di calciatori, sudando e calciano lo stesso pallone. Caldo-freddo, vittoria-sconfitta poco importa: per novanta minuti i guai con la giustizia e le pene del quotidiano, vengono dimenticati. Assorbiti dal comune obiettivo di squadra: fare più bella figura possibile nel campionato di Terza categoria. Il Freeopera è una squadra nata dall’idea del direttore del penitenziario di Opera a Milano, Alberto Fragomeni. A capo di una “cittadella” con 1300 detenuti ha intuito nello sport lo strumento per riavvicinare il mondo del carcere da chi sta fuori. Perché il Freeopera affronta squadre cosiddette “normali” con la sola accezione che si trova costretto a giocare sempre in casa, per ovvi motivi di sicurezza. Il risultato è a dir poco strabiliante: nella prima stagione (2003/04) finisce al secondo posto e agli spareggi sale in Seconda categoria. E proprio affrontando il Freeopera da avversario, Ceniti decide di vivere e raccontare la loro storia giocando con loro la stagione successiva. Insieme a chi ha preso vent’anni per una serie di rapine, chi otto per traffico di droga, chi tredici per associazione a delinquere… la lista potrebbe allungarsi di parecchio. Perché se c’è una cosa che accomuna tutti i giocatori è il reato sulle spalle. Ceniti lo sa e non cade nella trappola dei “poverini” questi calciatori. “Chiariamo una cosa – scrive – quei giocatori non sono eroi. Gli sbagli commessi hanno un costo altissimo da pagare. Ma poi? Una volta riacquistata la libertà non hanno diritto come tutti a una nuova occasione?”.
Ebbene sì, il calcio può essere anche questo. E chissà se anche sul colle di Covignano non possa essere trasformata in realtà questa bella avventura.
Filippo Fabbri