La sindrome post abortiva è un tema di cui si parla poco a causa della sua sensibilità, eppure è un fenomeno riconosciuto clinicamente da almeno 30 anni.
Durante la tavola rotonda “Maternità spezzate” è stato delineato un quadro clinico medico e psicologico della sindrome post abortiva e di come intervenire.
Il concetto di base è stato quello di sancire un’alleanza tra le esigenze di salute della donna e quelle del bambino. È noto, infatti, che esistono molte problematiche connesse all’aborto; il dottor Nicola Natale, (ginecologo e consigliere nazionale della Federazione delle Società medico-scientifiche) ha illustrato le complicanze cliniche che insorgono.
“La legge 194/78 fu introdotta per regolare quella pratica che allora, clandestinamente, portava a circa 300mila donne morte all’anno. Recentemente all’aborto di tipo chirurgico si è aggiunto quello farmacologico con la RU486, ma ambedue recano numerosi e gravi problemi alla salute della donna. Si va dalla perforazione dell’utero, alle emorragie, ai vari problemi d’infiammazione e in ultimo anche a problemi di fertilità futura”.
A quanto pare anche un sistema che può sembrare meno intrusivo come il farmaco formulato con Mifepristone e prostaglandine ha in realtà serie conseguenze.
“In Italia, la Toscana, è stata la prima regione a sperimentare l’utilizzo della RU486 e accade che nel 15-16% dei casi sia necessario comunque l’intervento chirurgico, in questo modo gli effetti collaterali dell’una vanno a sommarsi a quelli dell’altro”.
Ma esiste un ulteriore paradosso.
“Nei paesi dove le leggi sono più restrittive sull’aborto, come Irlanda, Polonia e Malta per citarne alcuni, il tasso di mortalità delle donne diminuisce. La mia conclusione è che il reale problema non è l’assistenza medica di cui si può usufruire, ma la pratica stessa dell’aborto”.
Durante il dibattito con il pubblico è intervenuto anche Alessandro Ceriani, Presidente dell’Ufficio Mobile Consumatori.
“L’Umc ribadisce il dovere delle Istituzioni e delle Amministrazioni di garantire dignitoso e adeguato supporto socio-economico alle donne che rinunciano all’aborto. Si tratta non solo di difesa della vita, ma anche di civiltà e coerenza. Non solo, la donna deve essere informata sui rischi che corre, sulla sindrome post abortiva, il non farlo per noi equivale a un’omissione e vizia quindi il consenso informato”.
Al dibattito ha preso parte anche la dottoressa Maria Cristina Felici Belicchi, psicologa e psicoterapeuta del Consultorio Ausl che ha portato l’esperienza riminese, raccontando come interviene lo staff dei consultori fin dal primo colloquio con la donna.
“È raro che una donna venga in consultorio a cuor leggero chiedendo di abortire, spesso si rivolgono a noi perché oberate di problemi socio-economici che sembrano impedire di continuare la gravidanza. È compito dello psicologo aiutare la donna a fare chiarezza nella sua vita e a responsabilizzarla sulle sue scelte. La maggior parte delle donne che vengono al primo colloquio poi tiene il bambino, le altre continuano l’iter e tornano a essere visitate 15 giorni dopo l’intervento. Si tratta di un lavoro di squadra dove ostetrica, psicologo e ginecologo lavorano in rete per cercare di dare la massima assistenza alla donna”.
Melania Rinaldini