Certezza della pena. Negli ultimi tempi tutti la chiedono, tutti la vogliono. Certezza della pena. Perché chi ha sbagliato è giusto che paghi. Già, ma qualcuno ha mai pensato a chi ha sbagliato? A perché lo ha fatto? Qualcuno si è mai domandato se la certezza della pena, se il carcere, se questo modello di carcere, siano davvero le soluzioni per un mondo più sicuro? Qualcuno si è mai posto il problema di un’altra certezza, quella del recupero? Domande pesanti, risposte difficili. Interrogativi che sono riecheggiati anche venerdì scorso in occasione dell’inaugurazione della nuova sede di Taverna della Casa Madre del Perdono, la struttura della Papa Giovanni XXIII che da tre anni si occupa del recupero dei detenuti attraverso il progetto Oltre le Sbarre e che accoglie dodici ospiti impegnati nella vita di comunità e nei servizi sociali.
“Il carcere così come è concepito oggi – sottolinea Giorgio Pieri, responsabile della struttura che in 36 mesi ha accolto ben 70 detenuti – non è la soluzione all’uomo che sbaglia. Ma forse non lo è neppure questo tipo di realtà, la nostra realtà. Non per questo dobbiamo fermarci o demoralizzarci perché come va riconosciuto il diritto a nascere, come va riconosciuto il diritto ad avere una famiglia, così va riconosciuto il diritto a ricominciare per la persona che sbaglia. Tale impegno è con tutta la chiesa, con le Istituzioni e con tutti gli uomini di buona volontà poiché, usando le parole del Cardinal Martini: è urgente esprimere in termini autenticamente biblici e Cristiani una risposta sostenibile al problema criminale, che prometta di essere feconda anche in termini civili e secolari”.
Quello che la Papa Giovanni sta cercando di fare in questa Casa che era diventata troppo stretta e che ora può contare su spazi più ampi. Spazi pronti ad accogliere chi è seriamente pentito di quanto fatto e pronto ad abbracciare il progetto Oltre le Sbarre.
“Il progetto è mirato a quella categoria di detenuti cosiddetti comuni, vale a dire non tossicodipendenti – continua Pieri – secondo le stime più recenti l’80% dei detenuti che escono dal carcere vi ritornano per reati simili ai precedenti. Sono necessari dunque percorsi educativi personalizzati che aiutino l’individuo a liberarsi da comportamenti e mentalità che sono di tipo delinquenziale. Non basta la casa, non basta il lavoro. Sono necessari aiuti relazionali significativi oltre che la casa e il lavoro. Con loro dunque abbiamo individuato un percorso a tappe. Prima di tutto il detenuto è conosciuto tramite colloqui personalizzati all’interno della struttura penitenziaria, arricchiti anche da un rapporto epistolare. Successivamente dopo aver sentito il parere degli educatori interni del carcere si valuta la possibilità di permessi premio da proporre al detenuto presso le nostre strutture. Questi possono anche essere diurni. Continuando i colloqui e dopo aver valutato il comportamento avuto durante il permesso, e sempre dopo aver sentito il parere degli educatori si valuta un periodo di tre/cinque mesi di semilibertà presso le strutture, in modo particolare le cooperative del territorio, ma non solo. In tali cooperative di tipo educative il detenuto si trova a contatto in modo particolare con persone in difficoltà, con handicap di tipo fisico e psichico, e tale incontro si è dimostrato, in questi anni d’esperienza, efficace verso la scelta interiore di un cambiamento definitivo. Ovviamente anche l’incontro con gli operatori e la relazione con loro sono indispensabili”.
Dopo questo periodo al detenuto che ha dimostrato davvero il desiderio di cambiare e soprattutto dopo questa reciproca conoscenza che porta anche ad una reciproca fiducia è proposto di andare a lavorare presso cooperative lavorative (Tipo B) in cui sono regolarmente retribuiti. “Cooperative che non sempre sono della Papa Giovanni – conclude il responsabile del progetto – se tutto va per il verso giusto si propone al detenuto l’affidamento presso una struttura di tipo famigliare, in famiglia o casa- famiglia, mantenendo il lavoro. Infine, dopo l’affidamento, si aiuta il detenuto a trovare una casa autonomamente e a cominciare a gestirsi sempre più indipendentemente. Qualora fosse necessario ci si attiva per tempo per il ricongiungimento famigliare, per l’ottenimento dei permessi di soggiorno, documenti vari…”.
Insomma, mai come in questo caso amare il prossimo tuo come te stesso. Il concetto di vita di don Oreste di cui il Vescovo Francesco, anche lui intervenuto all’inaugurazione della Casa, ha ricordato un episodio di vita.
“Mi raccontò che un giorno affrontò sulla strada un uomo pericoloso, che in mano aveva due grossi mattoni. Mi raccontò la sua paura ma anche di come lo guardò con uno sguardo d’amore che colpì talmente l’uomo che fece cadere a terra quelle due armi improprie. Credo che questa sia la strada che dobbiamo intraprendere tutti, che questa Casa possa diventare l’università del perdono”.
Francesco Barone