Alcuni anni fa un’azienda di San Mauro era alla ricerca di un testimonial per sfondare nel mercato ungherese, alle prese coi primi vagiti di capitalismo. La ricerca era stata piuttosto breve, il nome spuntato all’istante: Ferenc Puskàs. Non un personaggio qualsiasi, bensì un’icona del calcio mondiale degli anni ’50 e ’60. Mancino terribile della “squadra d’oro”, la Grande Ungheria, costretto dopo i carri armati di Budapest ad emigrare nel Real Madrid dove vincerà tutto. Erano anni di divisioni ideologiche mondiali nei quali l’Ungheria “fece da laboratorio a una duplice rivoluzione. La prima, rigata da un sinistro che sparava cannonate (quello di Puskas). La seconda, sferzata da cannonate sinistre (l’invasione russa del ’56”), scrive Roberto Beccantini. A raccontare la storia di questa straordinaria squadra ci ha pensato il giornalista Luigi Bolognini nel volumetto La squadra spezzata, (Limina editore, pp. 150, euro 14.00). Un romanzo visto con gli occhi di un giovane magiaro, Gabor, parte di un popolo che vedeva nel calcio la sola via di fuga da un quotidiano fatto di “un diabolico formaggio che in realtà era un tipo di cartone anche meno saporito del cartone classico, i cetrioli sottaceto, delle patate rachitiche e una strana marmellata di albicocche”. Difficile non rifondere nella propria nazionale l’orgoglio e il riscatto di una vita avara di soddisfazioni. Tanto più se quella squadra è la Grande Ungheria capace di giocare 50 partite, vincerne 43, pareggiarne 6, e perderne una: la più importante, la finale di Coppa Rimet contro la Germania. Sarà una delle tante contraddizioni di quegli anni con l’ombra del doping che graverà sul formidabile rendimento dei tedeschi in campo (si pensi che nelle eliminatorie gli ungheresi avevano battuto i tedeschi 8-3!). Il miracolo ungherese, comunque, non nasceva dal nulla, aveva le sue radici in una squadra di club: l’Honved. Per la verità si chiamava Kispest, nel ’49 il partito comunista decise di nazionalizzare tutto lo sport varando uno di quei “mitici” piani quinquennali (chi l’avrebbe mai detto anche nel calcio!), mutando il nome in Honved, che significa soldato. Dunque, la squadra dell’esercito, in quanto i riferimenti delle associazioni sportive erano diventati le fabbriche e i corpi militari. Ma era il sinistro di Puskàs a destare le meraviglie del mondo: esordio in nazionale a 18 anni, uno che rifiutò le sirene juventine per la clamorosa cifra di centomila dollari. Insomma, un giocatore del popolo, figlio di proletari, recitava la propaganda, che per arrotondare trafugava calze in nylon. La sua fuga in Spagna, dopo i fatti del ’56, lo trasformerà in traditore per il rigido regime di Rakosi. Il popolo però non dimenticherà Puskàs: il sogno spezzato di un’intera generazione.
Filippo Fabbri