Esistono ancora le Province? Da qualche anno la risposta non è più così certa. Ed è così per tutti: comuni cittadini, operatori dell’informazione, dirigenti, amministratori e, soprattutto, politici. Perché? Perché negli ultimi anni, nel dibattito pubblico, si fa riferimento ad una fantomatica abolizione delle Province, che tutti abbiamo sentito nominare almeno una volta, ma che quasi nessuno sembra riuscire a spiegare con assoluta precisione. Ma mentre si parla di Province abolite, l’esperienza quotidiana ci mostra che questi enti ancora esistono. Di recente è stato anche eletto il nuovo Consiglio provinciale con 8 rappresentanti per il centro sinistra e 4 per il centro destra. Si tratta di cariche senza gettoni e di elezioni di secondo grado, non fatte direttamente dai cittadini, ma una domanda resta: di cosa si occupa, di fatto? Cerchiamo quindi di fare un po’ di ordine in questa intricata e confusa giungla politico-giuridica.
Il disegno di legge “Delrio”
Tutto comincia più di due anni fa, il 3 aprile del 2014, quando la Camera converte il disegno di legge numero 1542-B, il “ddl Delrio” (dal nome dell’allora sottosegretario alla presidenza del consiglio Graziano Delrio, che lo ha presentato). Il ddl, già approvato alla Camera il 21 dicembre e al Senato il 26 marzo precedenti, diventa legge. Una legge composta da un unico articolo e da ben 151 commi, che porta con sé il fine di riformare la struttura e l’organizzazione delle Province. Riformare, anche in modo corposo, ma non abolire. Una riformulazione degli enti provinciali che, però, a causa di un’eccessiva semplificazione del dibattito pubblico, è passata per abolizione totale, formale e sostanziale, dando vita ad una confusione che si riverbera ancora oggi. Sintetizzando, la riforma prevede che delle 107 Province italiane, 13 si trasformino in città metropolitane, mentre le altre 94 assumano il nome di enti territoriali di area vasta, e diventino enti di secondo livello. Che significa?
Province… non elette
Con la legge Delrio le province diventano “enti di secondo livello”. Ciò significa che non si tengono più elezioni dirette da parte dei cittadini né per le assemblee provinciali né per i loro presidenti. Questi nuovi enti sono costituiti da tre organi: l’assemblea dei sindaci dei comuni della ex provincia, il presidente e il consiglio provinciale, costituito dal presidente stesso e da un gruppo di membri (dai 10 ai 16), eletti tra gli amministratori dei comuni della provincia. Ma eletti da chi? “Secondo livello” sta ad indicare che i componenti dell’ente sono sì eletti, ma indirettamente, cioè da soggetti già votati come rappresentanti del popolo. Il presidente, infatti, viene eletto dai sindaci e dai consiglieri comunali del territorio provinciale, e ha un mandato di quattro anni. Così come il consiglio provinciale, che però resta in carica due anni. Si può già notare, quindi, come le province siano abolite solo formalmente, a livello di mera nomenclatura.
Diverso nome, stesse funzioni
Nonostante il nuovo nome e la nuova struttura, oltre al nuovo metodo elettivo, gli “enti territoriali di area vasta” continuano a occuparsi delle medesime funzioni, come, principalmente, gestione degli istituti scolastici e delle strade provinciali. Ma anche tutela e valorizzazione dell’ambiente, oltre che pianificazione dei trasporti e gestione delle pari opportunità. Tutte le altre competenze, invece, passano sotto la gestione degli enti comunali, qualora le Regioni non preferiscano avocarle a sé, assieme al relativo personale e al patrimonio. E a proposito di personale, la legge prevede che sia il presidente che i membri del consiglio provinciale e dell’assemblea dei sindaci assolvano alle proprie funzioni a titolo completamente gratuito. Nessun compenso, dunque, oltre all’abolizione delle indennità. La ragione? Un risparmio, almeno queste le stime, di centinaia di milioni di euro.
Senza meta
Il problema fondamentale della riforma delle province, risiede nel comma 51: “In attesa della riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione e delle relative norme di attuazione, le province sono disciplinate dalla presente legge”. È quindi evidente: la legge Delrio nasce non come riforma compiuta, ma come tappa di un percorso, la cui destinazione, almeno nei progetti del Governo, sarebbe dovuta essere la riforma costituzionale, che avrebbe abolito, definitivamente, le Province.
Dal referendum al limbo
Abolire completamente le Province presuppone la modifica della Costituzione, e ciò prevede un procedimento lungo e complesso. Occorre una legge di revisione costituzionale che deve essere approvata non una, come per le leggi ordinarie, ma ben due volte da ogni ramo del Parlamento, e nella seconda approvazione è necessaria la maggioranza dei due terzi. Qualora non si raggiunga l’approvazione alle Camere, si rende necessario proporre un referendum, senza quorum. Esattamente ciò che è avvenuto lo scorso 4 dicembre. Proprio l’esito referendario, che ha visto la vittoria del ’no’, ha impedito il realizzarsi della riforma Delrio. Un paradosso amplificato dalla conseguente caduta del Governo, che ha portato alla necessità di approvare la legge di Bilancio in fretta e furia, tagliando tutto ciò che non era ritenuto prioritario: come la riforma delle Province, costrette al limbo.
La situazione di Rimini
E la Provincia di Rimini, in che acque naviga?
“Acque non troppo tempestose. Rimini, per fortuna, si trova in una fascia medio-alta, per quanto riguarda la situazione economica, ma c’è chi affonda completamente. – fanno sapere dall’ex ente provinciale riminese, oggi ’ente territoriale di area vasta’ – A livello di sostanza, la riforma Delrio e l’esito referendario non hanno cambiato nulla. La vittoria del SI avrebbe segnato, come nelle intenzioni del Governo, il compimento di un percorso perlomeno organico. Con la vittoria del NO ora occorre che il nuovo Governo prenda in mano la questione”.
Parliamo di un ente con 117 dipendenti, 35 dei quali sono attualmente in comando alla costituenda agenzia regionale per il lavoro. Una situazione di passaggio.
Lo Stato nel 2017 ha chiesto alla Provincia di Rimini 28 milioni di euro (erano 14 nel 2015 e 21 nel 2016). L’incasso totale dell’ente è di circa 29 milioni. Con il milione rimasto si devono pagare 5 milioni circa di spese di amministrazione di base (stipendi e spese di gestione). Non rimane nulla per funzioni quali strade e scuole.
Qual è la possibile soluzione? “Il problema fondamentale nasce dal non aver inserito nella legge di Stabilità la possibilità per le nuove province di eseguire il bilancio di previsione, che avrebbe permesso agli enti di alleggerire i tagli. Al momento questo non avviene con provvedimento ordinario che include una previsione triennale, ma è a livello annuale attraverso un provvedimento straordinario. È una grande lacuna, perché senza un adeguato budget non è possibile pensare progetti e stanziare fondi in modo programmatico ed organico, ma si è costretti a navigare a vista”.
Come svolgere adeguatamente le funzioni, quindi? “Per quanto riguarda la gestione delle strade, è emblematico l’esempio della Valmarecchia, colpita da forti nevicate. Non c’erano i fondi per far fronte a quella situazione. Una situazione che, infatti, è stata sanata dalla Regione, utilizzando i fondi della Protezione Civile”. E questo provoca l’ennesimo paradosso, perché “si è portati a sperare nelle calamità, unico modo per dichiarare lo stato d’emergenza e accedere ai fondi della Protezione Civile”.
Per quanto riguarda il personale di Rimini? “Con l’approvazione della riforma ci fu una vera e propria emorragia di personale, la cui fetta più grande è passata ai Comuni, soprattutto quello di Rimini. Per quanto riguarda il personale di specifiche funzioni, quello relativo alla gestione dei centri per l’impiego è passato alla Regione, mentre per l’ambiente c’è stato un trasferimento all’Arpa (Agenzia Regionale per la Protezione Ambientale)”.
Alla luce di tutto ciò, a conclusione di questo excursus, si pone spontaneamente una questione. Posto che la legge Delrio, a seguito del referendum, non è più parte di un percorso ma è una vera e propria legge in vigore, non si tratta di una legge incostituzionale? Perché le province, a cui la Costituzione concede pari dignità degli altri enti territoriali (Stato, Regioni e Comuni), non sono eleggibili direttamente dai cittadini? Ai dibattenti l’ardua sentenza.
Simone Santini