Sappiamo che l’Italia è un Paese in cui non mancano i commissari tecnici, i presidenti del consiglio,
i risolutori per ogni crisi. In ogni pranzo di famiglia, in ogni bar del paese, sul treno e alla fermata dell’autobus, non mancano persone che elargiscono con passione consigli e soluzioni ai problemi più complessi del momento.
Nelle occasioni di incontro tra i preti e anche tra gli operatori della pastorale, oltre a discutere delle cose di cui tutti discutono, spesso si indugia a confrontarsi in modo appassionato su come dovrebbe essere un seminario. La passione per questa discussione è uno dei frutti più importanti del Concilio Vaticano II. Nessuno prima del Concilio avrebbe pensato di poter discutere di questo: il seminario era sempre stato uguale, dal Concilio di Trento in poi.
Riforma del seminario?
Nelle ultime settimane questa discussione ha ripreso vigore anche nella nostra diocesi. Diversi preti hanno avuto l’occasione di leggere e confrontarsi su un bell’articolo di don Erio Castellucci, apparso sulla rivista “Settimana”, in cui proponeva di ripensare alla struttura dei seminari, per valorizzare quella dimensione pastorale richiamata dal Concilio come lo specifico del prete diocesano. La proposta di don Erio si rifà al cosiddetto modello parigino, istituito a metà degli anni ’80 dal card. Lustiger, che prevede, per i seminaristi, la vita in piccole comunità di formazione legate a delle parrocchie, con l’accompagnamento di un sacerdote che vive in una comunità pastorale insieme ad altri preti.
La domanda importante che soggiace a questa discussione è: stiamo formando adeguatamente i nostri seminaristi per diventare i preti delle nostre comunità? Su cosa si dovrebbe insistere e cosa si potrebbe cambiare?
Noi non studiamo da preti
Prima di addentrarsi in questa questione occorre brevemente dire che – spesso – chi discute sulla proposta del seminario non la conosce nella sua versione attuale, ma – piuttosto – si rifà a quella vissuta nel passato o a quella che appartiene ad un condiviso immaginario collettivo.
Quando oggi parliamo del seminario, non pensiamo ad un “collegio”, ma parliamo di una piccola comunità, fatta di relazioni fraterne e quotidiane. Il cuore del seminario è la comunità dei preti formatori, chiamati a vivere e a condividere con i giovani e gli adulti che intraprendono questo cammino, la proposta di vita evangelica che è legata al ministero presbiterale.
Per dirla in modo popolare, oggi “in seminario non si studia da prete”, ma si condivide la vita di alcuni preti che, con un’attenzione formativa, mettono in evidenza gli elementi fondamentali della vita cristiana e dell’esperienza ministeriale, fatta di preghiera, vita fraterna, studio, servizio.
Gli ingredienti della vita
del seminario
Al primo posto c’è la preghiera, quella della Chiesa, fatta di ascolto attento e quotidiano della Parola di Dio, di meditazione personale condivisa, di celebrazione quotidiana della liturgia delle ore e della messa, di adorazione eucaristica. Una preghiera che aiuti ad imparare a pregare. Una preghiera che metta a contatto con il Signore che ci chiama a convertirci e a seguirlo.
Poi c’è la vita fraterna, perché Gesù ha scelto di formare così i suoi discepoli. Nella vita fraterna impariamo a fare i conti con la pluralità delle storie, delle sensibilità e delle persone. La vita fraterna è il luogo in cui dobbiamo fare i conti con la verità di noi stessi, con i nostri doni e le nostre fragilità. Il Signore ci chiama ad essere pienamente uomini prima che essere preti, e la vita fraterna ci educa a questa verità.
Uno spazio importante nella nostra vita è dato allo studio della filosofia, della Scrittura e della teologia, perché tutti dobbiamo imparare ogni giorno a diventare testimoni e ministri non di un Gesù “secondo me”, ma di quel Signore che si rivela nella carne della Scrittura e nella vita della Chiesa, che è il suo corpo; siamo chiamati a conoscere la testimonianza e la professione di fede delle generazioni di cristiani che ci hanno preceduto, per dare il nostro contributo intelligente e sapiente a quel processo di trasmissione della fede in cui siamo stati generati e in cui dobbiamo generare.
Ultimo elemento della nostra formazione, ma non in ordine di importanza, è il servizio alla comunità ecclesiale. Il servizio, come la vita fraterna, è il luogo in cui impariamo a donarci, impariamo l’accoglienza incondizionata, impariamo a farci carico del bisogno dell’altro che diviene la regola per l’uso del mio tempo e delle mie risorse; impariamo il valore dell’annuncio e del lavoro insieme ad altri operatori pastorali che vivono vocazioni differenti, ma il medesimo impegno apostolico. Il servizio è il luogo dell’incontro con i poveri, con i malati, con coloro che sono stati scartati, ma che sono i primi destinatari dell’attenzione del Signore.
Ma questa formazione è
sufficiente per essere preti?
Spesso si pensa che la formazione in seminario debba essere come un serbatoio pieno di carburante, sufficiente per tutta la vita ministeriale del prete che viene ordinato. Noi crediamo, e il Concilio ce lo ha insegnato, che il sostegno alla sua vita e alla sua spiritualità, il prete lo trova nell’esercizio stesso del suo ministero, svolto all’interno della comunità del presbiterio ed in una Chiesa che non solo è la destinataria di ciò che è chiamato a vivere e a fare, ma è anche il luogo in cui, insieme agli altri presbiteri e agli altri credenti, viene formato, nutrito, perdonato e sostenuto. La formazione che si svolge in seminario è – dunque – solo la formazione iniziale, a cui dovrebbe seguire quella formazione (permanente) che la vita ecclesiale e ministeriale è capace di dare.
Per “fare dei buoni preti” per questo tempo è essenziale, ma non sufficiente, un buon seminario; occorre tutta una comunità cristiana che, imbevuta della gioia del Vangelo, possa “portare a compimento l’opera che Dio ha iniziato” in quel cristiano chiamato a diventare prete per Dio e per gli uomini.
don Andrea Turchini
mail@seminario.rn.it