Alternative al carcere. Ad un convegno esaminate le nuove pene sostitutive e le applicazioni, a distanza di un anno dall’entrata in vigore della riforma Cartabia
Carcere e giustizia.
Sembra proprio che i due termini per funzionare, debbano essere l’uno l’essenziale dell’altro. È davvero così? L’istituto penitenziario è la sola risposta al reato?
Sono domande a cui si è tentato di rispondere al convegno dall’eloquente titolo “ Presente e futuro della pena”, in presenza di numerosi relatori tra avvocati, giudici ed esperti, dedicato alle situazioni carcerarie, alle misure alternative e alle nuove pene.
Partiamo dal principio. In età illuminista si è pensato ad un metodo ugualitario ed equo per punire i malfattori: qual è quella cosa che accumuna tutti, nessuno escluso? La libertà. Ecco appunto che si è ideato uno spazio ristretto dove rinchiudere chiunque violi le regole.
Questa diffusa credenza, secondo la quale il solo risultato possibile di un processo è la reclusione, è culturalmente ancora molto attuale. Missione recente, di contro, è tentare di dare un riscontro diverso. Ecco che, pertanto, si sono elaborate delle pene alternative come l’affidamento in prova al servizio sociale, la semilibertà e la detenzione domiciliare.
E, frutto di una riforma ancora più fresca (di circa un anno), anche pene sostitutive, con connotati differenti rispetto alle ultime tre appena elencate.
La situazione dell’area penale
Scattare una fotografia precisa della situazione penale italiana è impresa assai ardua. L’attuale area penale conta l’impressionante numero di 240.000 persone coinvolte, tra le quali 61.000 detenuti complessivi; 26.000 messe alla prova; 9600 individui che scontano la pena di lavoro di pubblica utilità; 4800 soggetti in libertà vigilata.
E poi ancora 84.000 misure alternative al carcere attuate e 90.000 persone in attesa con pene alternative pendenti.
È di recente entrata in vigore (poco più di un anno fa) la riforma Cartabia, la quale ha introdotto novità di rilievo in merito. Tra i suoi principali obiettivi: la riduzione del sovraffollamento delle carceri e la diminuzione del carico degli archivi della magistratura di sorveglianza; nondimeno garantire una durata ragionevole del processo per tutte le parti coinvolte. Infatti, tenendo fede a quanto previsto dall’art. 111 della Costituzione, relativo al giusto processo, lo scopo della riforma è quello di accorciare, entro il 2026, le tempistiche del processo penale del 25%.
La Riforma
Questa sorta di spartiacque in ambito penale è innovativa, ma altresì molto complessa e articolata.
Con l’introduzione della riforma Cartabia vengono abolite le pene detentive brevi, come la libertà vigilata e la semidetenzione, al fine di incoraggiare l’utilizzo di misure più idonee. Entrando più nello specifico, il giudice avrà la facoltà di optare per la semilibertà e la detenzione domiciliare nei casi di condanna inferiore ai quattro anni. Quando, invece, la pena non supera i tre anni, potrà optare per la concessione del lavoro di pubblica utilità; mentre se inferiore ad un anno, la condanna potrà essere convertita in una pena pecuniaria.
“ La suddetta pena sostitutiva – chiarisce Francesco Pio Lasalvia, giudice del Tribunale di Rimini – non ha la funzione che invece possiede il carcere (privo di contenuto risocializzante), anzi, asserisce un connotato positivo: il condannato non fa semplicemente trascorrere il suo tempo, ma nel corso della sua pena svolge delle attività atte ad emanciparlo dalla necessità di ritornare a commettere il reato. Almeno dal punto di vista teorico. Si prevede, infatti, che la pena venga individualizzata e cucita il più possibile addosso al reo, scostandosi dalla standardizzazione derivata dal carcere”.
Alcuni motivi di appetibilità
“La Riforma Cartabia è all’avanguardia. – asserisce il dott. Marcello Bortolato, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze – Guardiamo ad esempio la detenzione domiciliare proposta: l’obbligo di restare nella propria abitazione è di dodici ore al giorno. Questo significa che per le restanti 12 ore il condannato può lavorare, seguire corsi di formazione e simili. La semilibertà prevede solo il pernottamento in carcere, almeno 8 ore, con le restanti fuori dalle mura del penitenziario. Ancora, la possibilità, una volta scontati in tempi più brevi i conti con la giustizia, di spostarsi all’estero.
Si badi bene: nei nostri archivi ci sono attualmente 90.000 istanze di soggetti che stanno ancora aspettando che la pena alternativa al carcere venga attuata e nell’attesa non possono rinnovare il passaporto, ad esempio”.
Le problematiche
A livello teorico si tratta di un’innovazione senza precedenti, tutt’altro, però, scevra di problematiche relative alla sua attuazione pratica, concernenti perlopiù i suoi obiettivi principali.
“ Per poter individualizzare la pena e cucirla ad hoc per l’imputato, – continua a spiegare il dottor Lasalvia – un giudice in fase di processo, dopo aver eseguito un’istruttoria relativa al fatto, al reato, dovrebbe cominciarne un’altra focalizzata sulla persona.
Una sorta di processo bifasico, come succede nel modello di giustizia anglosassone.
Sono pessimista sulla possibilità, dunque, che l’attuazione della riforma giunga veramente ad una detrazione del carico processuale”.
Di qui, l’interrogativo.
“Conviene al sistema? Per tutti i processi, anche i più banali, dopo una lunga e spesso estenuante istruttoria sul fatto, che se ne cominci un’altra sulla persona? Conviene applicare una pena sostitutiva che deve essere sempre attualizzata?
Perché, naturalmente, una persona, nel corso del processo dal primo grado all’esecuzione vera e propria, muta: cambiano determinati fattori, come quello economico, lavorativo, personale. Ciò significa che bisognerà mettere mano nuovamente all’attuazione della pena e verosimilmente l’armadio degli archivi si gonfierà ulteriormente”.
I numeri
Parlando più nello specifico di numeri, il dott. Lasalvia continua snocciolando le concrete applicazioni a distanza di un anno dall’entrata in vigore della riforma: “I dati che sono stati pubblicati dal Ministero della Giustizia (risalenti a novembre 2023) contano 1472 pene sostitutive, di cui solo 2 di semilibertà; 246 di detenzione domiciliare e 1284 di lavori di pubblica utilità. Alcuni commentatori sono ottimisti, ma se posso esprimere una mia considerazione: così come è stata congeniata, la riforma non potrà decollare”.
La situazione in carcere
“Siamo come un pronto soccorso – dichiara Palma Mercurio, direttrice del Carcere di Rimini – con poco personale, e poche risorse, che cavalca a fatica l’onda del cambiamento epocale quale è la riforma Cartabia.
A livello teorico è certamente una novità di grande rilievo sociale, ma alla quale manca una struttura ben precisa. Un primo dato che mi sento di dare è che i detenuti non sono affatto diminuiti. Abbiamo raggiunto e superato la soglia dei 60.000 detenuti in Italia.
A Rimini siamo a quota 160, di cui 100 definitivi. Un altro problema sostanziale dimora nella mancata giusta procedura per la semilibertà. I semiliberi entrano in carcere e purtroppo ci restano ben più tempo rispetto ai cinque giorni previsti per provvedere al programma di trattamento. L’Uepe (Ufficio Esecuzione Penale Esterna) non possiede strumenti sufficienti per adempiere a questo compito. Si rischia anche una spaccatura tra detenuti ‘pre’ e ‘post’ Cartabia: diffuse sono le reazioni violente, le ribellioni nei confronti non solo degli agenti di polizia penitenziaria, ma di tutti gli operatori del settore, dal direttore allo psicologo. Quasi certo è anche il pericolo di peggioramento del comportamento di un semilibero che, a contatto con le ristrettezze del carcere e l’estenuante attesa di una risposta alternativa, può regredire”.
Le proposte
“L’ordinamento penitenziario del ’75 – continua la dott. ssa Mercurio – prevedeva già la costruzione di case per la semilibertà, da realizzare in una parte qualsiasi della città e da affidare al controllo di altri organi della polizia, diversi da quella penitenziaria addirittura. Ora, senza aver tenuto fede a questa possibilità, io mi ritrovo soggetti da ubicare in situazioni di ristrettezza, a cui devo riempire la giornata.
Capite bene che tutto questo disorganizzazione stride con la promessa di non entrare in carcere che, in sede di processo, è emessa dal giudice. Ciò che si chiede è: rafforzare l’UEPE, rinvigorire la rete con il territorio, e (non guasterebbe) un briciolo di comprensione di tutti gli operatori del settore giustizia”.