Francesco Guicciardini nel 1526 denuncia la crisi del porto di Rimini. C’è bisogno di lavori urgenti: va in rovina “perché si riempie; e la Comunità vi spende assai, ma con tanto intervallo di tempo che non può far frutto”. La Comunità non ha i soldi necessari, né ha accettato la proposta di Valerio Tingoli e di altri mercanti cittadini che offrivano di tir arli fuori di tasca loro.
L’Ausa antica
Guicciardini ha pensato di “fare venire qualche maestro intendente, e più di uno, per vedere che rimedio vi fussi buono e di che spesa”. Chiamato a Roma, appunto nel 1526, non può realizzare il suo progetto. Sul finire del sec. XVI, c’è chi propone di spostare il porto sull’Ausa, perché la corrente “della Marecchia”, trasportando al mare ghiaia ed altro, rende di difficile gestione il canale, i cui interramenti “ostacolavano l’accesso delle barche con sensibile danno pel commercio della città” (A. Mercati, 1941).
Sull’Ausa, racconta L. Tonini (1848), è posto l’antico porto di Rimini: di esso non si sa se fosse formato da un seno di mare come si legge in Clementini, “o se invece vi concorresse pur la Marecchia”. Secondo G. Rimondini (2008) i due porti di Rimini sono un’invenzione di Clementini.
Annotava G. Moroni (1852) che l’antico porto, divenuto inutile fu demolito nel XV sec., “adoprandosene i materiali a edificazione di chiese”. E che nel 1615 era posta la sua ricostruzione per munificenza di Paolo V. In L. Tonini (1864) si conferma la notizia sull’utilizzo dei molti marmi del porto antico anche da parte di Sigismondo Malatesti per il Tempio di San Francesco. Tonini ricorda poi che da Roma sono decretati due sussidi per il porto, nel 1562 (500 scudi annui) e nel 1591, aggiungendo che per esso “già erano state impiegate molte somme inutilmente” forse non soltanto per la forza del fiume ma pure per l’imperizia dei tecnici. Tutte queste vicende proiettano le loro ombre agitate sul sec. XVIII per il quale gli aneddoti storici sulle rivalità tra i dotti fanno dimenticare la vera sostanza del problema: i politici che governano non sanno prendere le giuste decisioni. Ecco perché il malaffare dei compromessi e dei favori uccide lentamente l’affare economico della vita portuale così strategica per Rimini. I fatti.
I lavori del 1700
All’inizio del 1700, su consiglio del card. Ulisse Giuseppe Gozzadini, legato di Romagna, sono eseguiti lavori di riparazione alle sponde. Alla riva destra, le palizzate sono sostituite completamente da un’opera in muratura. Il Comune spende più di 70 mila scudi. In seguito all’alluvione del 1727, “caddero i nuovi moli (perché malamente costruiti) nel Porto; e questo solo danno fu calcolato in quindici mila scudi. Le acque erano a tale altezza che dall’Ausa alla Marecchia verso il mare giunsero a sorpassare l’altezza degli alberi più elevati”, scrive Luigi Tonini (1864), riprendendo la Cronaca del conte Federico Sartoni (1730-1786).
Nel 1744, prosegue Tonini, essendo stata trascurata la sponda sinistra per più anni e non essendo stata essa prolungata come la destra, ci fu “lo sconcio che la corrente, espandendosi presso alla bocca, perdesse di forza a portar oltre le ghiaie, le quali per conseguenza otturarono il canale”.
L’argomento del porto tiene banco in città. Ne abbiamo testimonianza dall’intervento di Giovanni Antonio Battarra, nel 1762. In esso, racconta Carlo Tonini (1884), si dimostra “come il Comune, aggirato da pratici ignorantissimi, gettava il pubblico danaro in provvedimenti inutili e male divisati”. “Quante volte il fiume ebbe rovinato il canale, fu chiesto il parere” di Battarra, prosegue C. Tonini: “E quando il danno montò al colmo, egli presentò un piano, il quale fu bensì accolto; ma poi pessimamente eseguito da chi aveva interesse (così dice il Rosa) di screditarlo”. Michelangelo Rosa (1894) racconta che il piano di Battarra fu anche “alterato a capriccio”. Battarra (1714-89) è un filosofo, il che in quegli anni significa anche scienziato. Nel 1755, ha pubblicato la Storia dei funghi dell’agro riminese, un’opera in latino, conosciuta in tutt’Europa.
La Scienza in campo
Battarra vuole difendersi dalle critiche e dalle malignità cittadine, dopo che quel piano (come spiega Rosa), è stato “pessimamente eseguito da chi non si fece coscienza di volere innanzi lo sconcio e il danno” dell’ideatore. E, quando apre nel dicembre 1762 il suo corso pubblico di Filosofia, Battarra tiene due discorsi sul porto, che pubblica l’anno successivo in volumetto: è questo l’intervento a cui si riferisce C. Tonini. A sostegno delle sue tesi, Battarra ricorre anche all’autorità di Galileo: per un arco di quarto di circolo, l’acqua si muove più velocemente che per la corda di esso. La velocità del fiume serve a tener più pulito il canale. Precisa il nostro: “Mi rido che il condur acque per linea retta sia in tutti i casi la regola più certa, per farle giunger più presto e con più velocità al lor destino”.
Come si vede, la disputa scientifica si accende, e non la ripercorriamo avendola ricostruita sulle colonne de il Ponte il 6 ottobre 1991, presentando anche documenti inediti. Ci soffermiamo invece su quel punto in cui C. Tonini riprende l’opinione di Battarra; “il Comune, aggirato da pratici ignorantissimi, gettava il pubblico danaro in provvedimenti inutili e male divisati“. La situazione è talmente tesa che, quando il Comune decide di effettuare non il prolungamento dei moli ma la distruzione di quello di destra per procedere all’espurgazione del canale, ci scappa fuori un tumulto di pescatori e marinai per merito o colpa del quale i lavori sono sospesi, si dice ufficialmente: ma in realtà non c’erano soldi in cassa per portarli a termine. Era il 26 aprile 1768.
Il Governatore riminese, conte Vincenzo Buonamici di Lucca, aveva scritto al vicelegato papale Michelangelo Cambiaso che i battelli non potevano entrare nel porto. Ma non era vero: tra gennaio e il 16 marzo 1768, ne erano giunti 79.
Gli agostiniani
Si contrappongono autorità che scrivono cose non rispondenti al vero, ed i lavoratori del mare che non riescono a far ascoltare la loro voce se non con un tumulto, sul quale poi i benpensanti contemporanei e posteri hanno ricamato in abbondanza. Quel tumulto non è un semplice dato di cronaca, è il sintomo di un malessere che dimostra l’inadeguatezza del regime aristocratico che regge le sorti della città.
Un documento collocabile tra 1625 e 1668, racconta di una “lite” intercorsa fra la Municipalità ed un Ordine religioso, quello dei canonici regolari agostiniani di San Giorgio in Alga che aveva ricevuto in affidamento il monastero di San Giuliano nel 1496 nell’omonimo Borgo. In occasione della fiera che vi si svolgeva, i monaci volevano affittare alcune stanze di loro proprietà. La Municipalità si oppone, non ritenendole “opportune ad abitazione di onorati mercatanti”, in quanto erano state ridotte dal monastero “a stalle d’animali, et a postriboli di femmine di mondo”.
A quell’ordine appartiene Vanzio Vanzi, fattosi monaco nel 1609: era figlio di Giovanni, il padre del quale (Lodovico) era fratello del celebre giurista mons. Sebastiano vescovo di Orvieto.
Roma comanda
I politici che governano non sanno prendere le giuste decisioni, abbiamo scritto sopra. Aggiungiamo a loro discolpa un dato oggettivo che riguarda tutta la nostra regione. Come scrive G. Tocci (2004), lo scontro tra i poteri locali e quello centrale provoca situazioni in cui sono precluse possibilità di sviluppo e di progresso. Nelle singole città tornano le rivalità tra le fazioni locali. Il governo romano è incapace di assorbire le differenze fra le singole situazioni dello Stato pontificio. Un esempio illuminante è dato dal fatto che nel 1558 Rimini è obbligata a partecipare alle riparazioni del porto di Ancona.
(6. Continua)
Antonio Montanari
Nella foto la pagina di Francesco Guicciardini sul porto