L’appuntamento che San Paolo ci ha dato per quest’ultima intervista prima della pausa estiva è proprio sul piazzale della Basilica a lui dedicata, “san Paolo fuori le mura”. Sullo sfondo della piazza, tra i pullman dei turisti e dei pellegrini, si erge la bianca basilica neoclassica costruita con il concorso di tutta la cristianità dopo il terribile incendio del 1823. All’appello di papa Leone XII non solo risposero in massa i Cattolici, ma giunsero doni dal mondo intero, come i blocchi di malachite e di lapislazzuli donati dallo Zar Nicola I, che servirono ai due sontuosi altari laterali del transetto, o come le colonne e le finestre di finissimo alabastro, dono del re Fouad I di Egitto. «Mi piace pensare» dice Paolo con tono pacato, «che questo sia stato uno dei primi cantieri ecumenici».
All’inizio del IV secolo, cessate le persecuzioni, l’Imperatore Costantino fece fare degli scavi sui luoghi ove i Cristiani veneravano la memoria dell’Apostolo San Paolo. È su questa tomba, situata sulla via Ostiense, a circa 2 km fuori le Mura Aureliane che cingono Roma, che fece innalzare una Basilica, consacrata da Papa Silvestro nel 324. La Basilica non cesserà lungo i secoli di essere oggetto di abbellimenti e di aggiunte da parte dei Papi. La lunga serie di medaglioni rappresenta tutti i Papi della storia, fu iniziata sotto il pontificato di Leone Magno nel V secolo e testimonia qui in modo straordinario la «supremazia riconosciuta dai fedeli di ogni luogo alla grandissima Chiesa costituita a Roma dai due gloriosi Apostoli San Pietro e San Paolo»Oggi, è è venuta alla luce la tomba dell’Apostolo. Oltre alla Basilica Papale, l’insieme comprende una Abbazia benedettina molto antica. È lì che, ogni anno, si chiude solennemente nel giorno della Conversione di San Paolo, il 25 gennaio, la Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani. In questa basilica il beato papa Giovanni XXIII il 25 gennaio 1959 ha annunciato la convocazione del Concilio Vaticano II. Papa Benedetto XVI, il 28 giugno 2007, ha visitato la Basilica per indire “l’Anno Paolino”.
Al centro del chiostro progettato dall’architetto Poletti (sì quello che ha fatto anche il nostro teatro di Rimini) c’è un’imponente statua del santo. Non posso fare a meno di sbirciare la somiglianza tra Paolo di Tarso che sta davanti a me e la statua titanica: l’ometto mediterraneo, scuro di pelle, quasi calvo, ma vivace e vigoroso ed il Paolo idealizzato dallo scultore Giuseppe Obici, con tanto di clamide romana e con uno sguardo corrucciato e pensoso. Quasi a commento dei miei pensieri Paolo esclama «spero davvero di non essere stato così terribile!», poi quasi per giustificare l’artista «in realtà ho dovuto prendere di petto tanti problemi del cristianesimo nascente… magari andrebbe bene mettere un cartello sotto quella statua con questa scritta: San Paolo mentre scriveva la lettera ai Galati – si sa che quella è la lettera più “forte” che ho dovuto scrivere, per correggere delle comunità che sbandavano fortemente dal vangelo che avevamo annunciato, incantati (Gal 3,1) da tutta una serie di devozioncelle e bigotterie. Che anni difficili!».
Queste sue parole mi danno il coraggio di affrontare un argomento un po’ spinoso. Fino a qualche anno fa tra i suoi commentatori, anche i più autorevoli, c’era la tendenza a parlare di un partito anti-paolino nella chiesa nascente. Si era arrivati a contrapporla persino all’apostolo Pietro. Oggi il tema è molto più smorzato. Cosa può dirci a riguardo?
(Paolo mi lancia uno sguardo un po’ severo) “Bisogna riconoscere che una personalità per tanti versi un pò originale come la mia diede alla Chiesa nascente un’apertura ed un impulso che andava molto al di fuori della cerchia giudaica delle origini, e proprio per questo non poteva non sollevare nella comunità alcuni timori ed anche qualche reticenza. La prima chiesa che ricevette la mia testimonianza e che ha riflettuto sui miei scritti e sulla mia missione, ne riconobbe l’ispirazione divina e l’indubbia ricchezza non in modo pedissequo ed irragionevole. In fondo sono proprio le difficoltà e le asperità del mio pensiero che mostrano come il cristianesimo non sia stato “fondato” da me, come molti in passato ed anche recentemente hanno sostenuto, ma casomai da me sviluppato attraverso la riflessione teologica e spirituale sul mistero di Cristo. Quanto a Pietro è meglio lasciar parlare un brano della sua seconda Lettera: «La magnanimità del Signore nostro giudicatela come salvezza, come anche il nostro carissimo fratello Paolo vi ha scritto, secondo la sapienza che gli è stata data; così egli fa in tutte le lettere, in cui tratta di queste cose. In esse ci sono alcune cose difficili da comprendere e gli ignoranti e gli instabili le travisano, al pari delle altre Scritture, per loro propria rovina>> (2Pt 3,14-16).
Pietro era una persona eccezionalmente umile, molto consapevole dell’enorme carico che Gesù gli aveva affidato, ed anche consapevole dei suoi limiti. Devo dire che sapeva valorizzare tutti quelli che potevano aiutarlo nella predicazione del Vangelo. All’intrepido ed un po’ cocciuto pescatore di Galilea era subentrato, dopo la Pasqua di Gesù, un uomo dolce e comprensivo. Egli diede una risonanza positiva al mio messaggio nella prima chiesa. Per quanto riguarda le opposizioni, non deve meravigliare il fatto che il mio pensiero abbia trovato delle avversità: questo avvenne sia per l’allontanamento della mia dottrina dalle pratiche della tradizione giudaica, sia per il mio personale carattere un pò focoso e non troppo incline alla mediazione (molto diverso in questo dal carattere di Pietro). Tuttavia le contrapposizioni furono sempre riconducibili all’unità di intenti del gruppo degli apostoli, al quale io sempre feci riferimento. Ad esempio nella Lettera di Giacomo (2,22-24) è citato lo stesso passo di Genesi 15,6 che utilizzai in Galati 3,6. Ma mentre per me tale citazione dimostrava la radicale superiorità della Fede sulle opere (circoncisione inclusa), Giacomo utilizzò questa citazione per ribadire l’importanza delle opere nel dimostrare una Fede concreta. È ovvio che non c’era contraddizione tra Giacomo e me (più sotto nella medesima Lettera ai Galati in 5,6 parlo di una fede che opera nella carità, tuttavia l’insistenza sullo stesso versetto è indicativa. Io ero perentorio (ed i concilii mi avrebbero poi dato ragione): non si può anteporre nulla, nessuna devozione, nessuna opera di religione, alla fede in Gesù. Da quella scaturisce tutto, la carità stessa vive della nostra fede nella grazia che Gesù ci ha guadagnato con la sua croce e la sua risurrezione.
Dunque qualche screzio ci fu… ad esempio quel famoso “confronto” di Antiochia tra lei e Pietro di cui parlano sia gli Atti sia la Lettera ai Galati…
“Tutto cominciò per la venuta ad Antiochia di giudeo-cristiani da Gerusalemme, i quali sostenevano la necessità di imporre ai convertiti dal paganesimo l’osservanza delle pratiche rituali giudaiche, primo tra tutte la circoncisione. Per questo motivo io e Barnaba salimmo a Gerusalemme per consultare Pietro e Giacomo «Ora alcuni, venuti dalla Giudea, insegnavano ai fratelli questa dottrina: “Se non vi fate circoncidere secondo l’uso di Mosè, non potete esser salvi”. Poiché Paolo e Barnaba si opponevano risolutamente e discutevano animatamente contro costoro, fu stabilito che Paolo e Barnaba e alcuni altri di loro andassero a Gerusalemme dagli apostoli e dagli anziani per tale questione (Atti 15, 1-2)». Il problema era fondamentale: a quali condizioni i pagani potevano entrare a far parte della Chiesa di Cristo e sperare nella salvezza? Bastava solo la fede in Gesù Cristo o dovevano farsi circoncidere e cioè entrare nella fede ebraica? La Chiesa di Antiochia accoglieva i pagani senza chiederne la circoncisione; così anche nelle comunità di recente fondazione. I più tradizionalisti si opposero a tale prassi. Il concilio di Gerusalemme riconobbe la nostra prassi missionaria, e io interpretai la decisione come accettazione, in linea di principio, della libertà dei pagano-cristiani dal giogo della legge giudaica.
L’ala oltranzista del giudeo-cristianesimo interpretò invece la decisione del Concilio in modo minimistico e si lanciò in una contro-missione delle chiese della Galazia per imporvi la circoncisione e l’osservanza delle norme rituali giudaiche. Ho difeso strenuamente questa dottrina, con tutta la mia passione e con chiara lucidità teologica (nulla va anteposto alla salvezza portata da Cristo!).
Non esitai a fare pure le mie rimostranze a Pietro in quel famoso incidente di Antiochia narrato da Galati 2,11-14. Proprio perché non erano ancora chiare le norme necessarie per la pacifica convivenza tra circoncisi e incirconcisi nella comunità cristiana, Pietro aveva smesso, sotto la pressione di giudei provenienti da Gerusalemme, di condividere la mensa con i pagano-cristiani.
L’esempio dell’Apostolo giunse a contagiare pure Barnaba e altre persone. Mi feci coraggio e rimproverai Pietro accusandolo di voler imporre vincoli inutili ai cristiani. Probabilmente per Pietro e per Barnaba si trattava solo di una delicatezza pastorale, ma il mio intervento fu lungimirante per la faticosa liberazione del messaggio cristiano dal peso della cultura religiosa legata alle pratiche giudaiche. In quell’occasione fui colpito dalla maturità e dall’umiltà di Pietro. Accolse il mio “focoso” invito, non fece gesti di rottura, dimostrandomi che se avevo ragione nei fatti forse potevo essere più delicato nei modi. Che grande uomo, davvero degno di essere il primo papa!”
(6 – continua)
a cura di Guido Benzi