Era la piazza del Corso. Un po’ prima, del Duomo vecchio o Santa Colomba, grande chiesa romanica risorta a nuova vita nel 1329 e consolidata nel 1675. Salvatasi dalla furia demolitrice di “Sigismondo che aveva costrutto la rocca dov’erano le sue case” e che aveva abbattuto l’antico Episcopio insieme a due cappelle, al vecchio battistero ed al convento di santa Caterina (C. Ricci, 1924). “Né, infine, l’abbatté Clemente VII” che era stato consigliato in tal senso nel 1526 da Antonio da Sangallo il giovane, per spostare la cattedrale nella chiesa di san Francesco, il che avviene nel 1809.
Santa Colomba “fu demolita nel 1815, quando il castello non minacciava più. Rimase solo in piedi il largo campanile, convertito in casa privata. E ai demolitori il giuoco del piccone piacque tanto”, sottolineava Ricci, “che due lustri dopo si volsero ad esercitarlo ai danni del castello…” Nel 1798 Santa Colomba subì l’affronto dei francesi invasori impadronitisi di Rimini il 5 febbraio 1797. Essi la ridussero a caserma, mentre cattedrale divenne San Giovanni Evangelista.
Il 22 dicembre 1854 davanti alla Rocca malatestiana il boia mozza il capo a Federico Poluzzi detto Bellagamba, fratello di Laura, madre dell’oste anarchico Caio Zanni che ospiterà Gaetano Bresci di passaggio da Rimini verso Monza. L’accusano di aver ucciso don Giuseppe Morri mansionario della cattedrale. Ma “tra chi lo conosceva, si sussurrava che altri fossero gli uccisori di don Morri e che lui avesse rinunciato a difendersi presentando un alibi per non compromettere la moglie di un fornaio con cui aveva trascorso in intimità l’ora in cui era stato ucciso don Morri” (G. Nozzoli).
Il carnefice, venuto con la macchina per l’esecuzione da Ancona, era “un umaz cun e capel dur, e tòt ner com un bagaron”, ricordava Augusta Gattei che allora aveva sette anni. Gli spettatori litigavano per accaparrarsi un posto da cui godere meglio la scena, i soldati faticavano ad arginarli e “i ragneva”, dando spintoni a tutti. Bellagamba gridò: “Morte ai tiranni e sempre viva la libertà”. L’Augusta raccontava: “L’era bèl. Drét com’un fus e spaveld”. Il suo ultimo desiderio, “un pizzunzein arost, un bicér d’mistrà e un Virginia”, sigaro di marca.
Oggi tra il rudere del teatro e lo sfondo solenne di Castel Sigismondo, la piazza resta simbolo del “giuoco del piccone” che ha fatto tanti danni negli ultimi 150 anni. Come nel 1948 con il Kursaal del 1873, per volere del vicino Palazzo Comunale.
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