In questo periodo si parla molto di «accanimento terapeutico», per indicare le cure eccessive date per tenere in vita persone altrimenti destinate alla morte. Mi è stato detto che anche la Chiesa sarebbe contraria. È così? E in che termini viene definita la cosa?
Paolo Biagiotti
Il principio fondamentale nel valutare l’eticità di una cura medica è che le cure sono per il bene delle persone ed è chiaro, perciò, che se un intervento di tipo medico o chirurgico risulta inutile o anche dannoso per la persona, non è giustificato. L’accanimento non è, pertanto, moralmente lecito.
Sarebbe disumano e contrario allo spirito del buon samaritano insistere con terapie che servono solo a prolungare in modo penoso, oltre i suoi limiti naturali, la vita di un malato, senza dargli speranza né di guarigione né di migliorare la qualità della sua vita. La morale cattolica pone limiti non solo all’accanimento in senso stretto, ma anche a tutti gli interventi che risultassero in qualche modo impraticabili o insostenibili per un malato perché troppo dolorosi, o perché gravati di pesanti effetti collaterali, o perché economicamente impossibili o perché configurano una sproporzione evidente fra mezzi impiegati ed effetti conseguiti. È ragionevole e, in questo senso, doveroso per una persona mantenersi in vita e in salute perché la vita e la salute sono beni naturali che permettono alla persona di esprimersi in pienezza, ma questo non significa che bisogna usare sempre e ad ogni costo tutti i mezzi clinicamente disponibili. A questo proposito il Catechismo della Chiesa Cattolica insegna che può essere legittimo sospendere o rifiutare terapie «gravose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi» (CCC, n. 2278).
La decisione di rinunciare a praticare un certo intervento terapeutico, per essere moralmente accettabile, non deve essere mossa dalla volontà di dare o darsi la morte.
Procurare la morte sia attivamente (con un veleno, per esempio) sia passivamente (omettendo cure doverose) è eutanasia. La morale cattolica, pertanto, non può accettare, in quanto contrario al bene della persona, che non si inizino o che, se iniziate, si interrompano cure e terapie, con l’intento di procurare la morte. È stato il caso tristemente famoso di Eluana Englaro che non era certo una paziente terminale e che non era in condizioni di sofferenza, ma che fu egualmente soppressa attraverso l’interruzione di nutrizione e di idratazione.
Nella prospettiva della cultura dello scarto – per usare una efficace espressione di papa Francesco – sembra, infatti, irragionevole impegnarsi a mantenere in vita esistenze tanto ferite e marginali. Un cristiano, invece, prende le sue decisioni a partire dalla consapevolezza del valore della vita e di ogni vita: egli si prende cura della vita propria ed altrui, ma sa che, arriva il momento in cui bisogna desistere da cure e trattamenti inutili, nella persuasione che accettare il subentrare della morte senza violentarla è segno di saggezza e di rispetto della persona.
Le decisioni sulle cure e sulle terapie devono essere prese dal paziente, in dialogo con i medici nel contesto di una relazione sincera fra persone, la cosiddetta alleanza terapeutica di cui è parte integrante il consenso informato. Se il malato non è in grado di prendere queste decisioni subentrano i familiari o altri soggetti – secondo quanto previsto dalle leggi – che valuteranno quello che è meglio per lui, tenendo conto delle indicazioni eventualmente date dal paziente ovvero cercando di interpretarne i legittimi desideri (cfr. CCC 2278) . In teoria potrebbe essere utile stilare un documento (come le dichiarazioni anticipate di trattamento o DAT) che stabilisse con chiarezza gli orientamenti decisionali di cui tener conto in situazioni in cui il paziente non fosse in grado di decidere perché, per esempio, è in coma. Di fatto, seguendo il dibattito bioetico in Italia che, in questi mesi, è sfociato in un progetto di legge attualmente all’esame del Parlamento, si comprende che molti di coloro che vogliono una legge sul fine vita respingono alcuni principi fondamentali del nostro convivere civile e, prima di tutto, quello dell’inviolabilità della vita.
Una buona legge sul fine vita dovrebbe, da una parte, regolare e armonizzare tutta la materia, incluso, per esempio, il tema delle cure palliative e della sedazione terminale, ma dovrebbe anche respingere con rigore le derive eutanasiche che si stanno infiltrando, più o meno larvate, nella prassi medica e nella mentalità corrente.
Maurizio Faggioni
docente di Teologia morale