Per il Teatro Festival di Parma Erwartung il monodramma di Schönberg nella versione pianistica con Ausrine Stundyte
PARMA, 22 novembre 2023 – Un’inversione di prospettiva. Il pubblico è seduto in palcoscenico e la platea, invece, diventa lo spazio dove si muove la protagonista per dare forma al suo allucinato racconto.
Pietra miliare dell’espressionismo, Erwartung (Attesa) – monodramma di Schönberg composto nel 1909, seppure andato in scena molto più tardi, su parole della psichiatra e poetessa Marie Pappenheim – è stato proposto al Teatro Due di Parma nella trascrizione pianistica di Andrej Hovrin. Una scelta che non fa rimpiangere troppo la versione originale per orchestra: semmai, sposta l’accento su una dimensione più intima.
Questo lavoro fulminante – poco più di mezzora – che crea una tensione ininterrotta, quasi parossistica, è in grado come pochi altri di far affiorare attraverso la musica i mutamenti culturali in atto agli inizi del ventesimo secolo, in particolare quelli legati alla neonata psicanalisi, puntando l’attenzione sull’isteria, che cominciava a essere oggetto di ricognizione scientifica. Del resto, anche nei decenni successivi Erwartung è rimasto un archetipo di monodramma, declinato al femminile. Nella sua scia si collocano una partitura fortunatissima come La voix humaine di Francis Poulenc (su testo di Cocteau, 1959) e, pochi anni fa, Émilie di Kaija Saariaho: tutte vicende che ruotano attorno alle angosce di una donna abbandonata dall’amante.
Avvalendosi di pochi elementi, il regista Calixto Bieito realizza uno spettacolo molto essenziale e potentissimo, dove riesce a raccontare per immagini gli abissi dell’inconscio che abitano la protagonista. Al centro della platea si trova il pianoforte, suonato dallo stesso Hovrin; sul pavimento un tappeto di rose rosse; sulle poltrone di velluto sono appoggiati dei tubi luminosi, a delineare un immaginario labirinto. In questo dedalo si muove la Donna nel suo angoscioso vagabondare notturno: sola, alla ricerca dell’amante, in un bosco rischiarato dalla luna che si riverbera attraverso un’illuminazione verdastra.
L’effetto non sarebbe stato così potente, però, senza un’interprete carismatica come Ausrine Stundyte, uno dei soprani più acclamati di oggi nel grande repertorio novecentesco. Volto magnetico e capacità di trasmettere emozioni anche attraverso il corpo, l’artista lituana è entrata in perfetta simbiosi con le intenzioni del regista. Con indosso una candida camicia da notte – che però, pungendosi con una rosa, s’imbratta subito di sangue – la cantante si aggira nella platea, scavalca le poltrone, inciampa nei tubi luminosi, ansima e trasalisce a ogni minimo rumore, fino a quando s’imbatte nel corpo insanguinato di un uomo (che ha la plastica fisicità dell’attore Marek Brafa). Quel cadavere potrebbe essere Lui: la Donna lo abbraccia, lo bacia, ma – quasi spinta da un demone distruttivo – comincia a percuoterlo con le rose prese dal pavimento e, un po’ alla volta, lo denuda. La Stundyte compie tutti questi gesti mentre canta, mantenendo una voce sempre sonora e ben timbrata: perfettamente a suo agio in quello Sprechgesang – auspicato da Schönberg – cui sa imprimere un caleidoscopio di accenti e sfumature.
Dopo questo carico di emozioni, lo spettacolo si chiude con la Donna accucciata sul pavimento, accanto a una poltrona. Forse è riuscita a scendere a patti con la propria solitudine, forse lo sfogo fisico l’ha finalmente rasserenata. O forse è un incantesimo che si può realizzare solo in teatro.
Giulia Vannoni