Dai tempi ormai lontani (1972!) in cui pubblicai a Firenze il saggio su Marxisti e ’riministi’, passando per la prateria filosofica dell’ostica “concordia discors” Tra Croce e Gramsci (1992), fino al recente, ironico e impietoso romanzo autobiografico della giovinezza politica, I Sardoni, ho sempre sentito, nei confronti di Liliano, una sorta di “obbligo morale” per la testimonianza, a futura memoria, del suo percorso di intellettuale.
Compito che avrebbe dovuto essere, in verità, delle Istituzioni, più che di un privato. Ma è inutile lamentarsi. In ogni caso, non è facile garantire ad un autore “scomodo” che le sue idee possano godere di una reale circolazione. A maggior ragione se non sempre le si condivide, come nel mio caso. Gli epitaffi ufficiali diranno poi che l’Autore ha scritto “opere fondamentali”, che ovviamente pochi fra coloro che amano definirsi produttori di cultura hanno mai letto; e che nessuno si è mai sognato di far conoscere alla cittadinanza.
Ma a Liliano era bastata una ironica e disinvolta cavalcata storica “lunga oltre venti secoli”, a narrare i fasti e i nefasti della riminesità, per guadagnarsi sul campo contemporaneamente i galloni di storico, l’amicizia di Fellini e più di recente il Sigismondo d’oro. Ed era bastata una sua piccola indagine su cattolici e comunisti in una parrocchia di campagna, irta di numeri e di tabelle, per farlo passare come una specie di Guareschi di sinistra.
Oggi che Liliano è scomparso, i lettori riminesi (e non solo) potranno forse tentare di riconfrontarsi con questo suo scorbutico intellettuale e soprattutto con quella parte della sua opera, più sofferta e “difficile”, nata in 36 anni di riflessioni solitarie. Liliano ha sempre saputo che quei libri erano, per l’editore, una rimessa secca. La sua gratitudine e la sua amicizia fin dentro il cunicolo buio del suo spegnimento e nell’incupito abbandono degli ultimi anni al Valloni, assistito solo dalla cognata Paola e dai due figli, mi hanno tuttavia largamente compensato. La scintilla che vedevo nei suoi occhi, quando troppo raramente andavo a trovarlo, era la stessa che si accende negli occhi di un bambino “difficile” quando qualcuno, inaspettatamente, lo accarezza.
Ma il più delle volte lo irritavo. Lui mi provocava con i suoi dubbi “laici”, io lo stuzzicavo con le mie “cattoliche” certezze. Non erano sinceri né gli uni né le altre, lo sapevamo entrambi. La sua paura della morte, il suo preteso nichilismo, la sua arrogante marginalità, mi entravano nelle ossa come un contagio che io combattevo con la professione di una speranza che non sapeva diventare rasserenante perché non sapeva abbandonare il terreno dell’intelligenza. Solo a chi è come i bambini è dato il Regno di Dio. Ma di Dio discutevamo comunque per ore, con la retorica infantile di adolescenti invecchiati.
La sua curiosità culturale cominciò a vacillare con la morte di Vicenzo, il fratello adorato, grande psicologo. Negli anni ’70 avevo pubblicato un suo delizioso Elogio dell’Automobile, poi l’avevo perso di vista. La sua morte aveva letteralmente sconvolto Liliano: la sua disperazione questa volta era reale. La domenica di Pasqua del 2005 banalmente cadde nella sua stanzuccia adibita a studio: una stanzuccia monacale piena di libri gelosamente custoditi, dove d’inverno sedeva alla scrivania calcando una berretta di lana sulle orecchie. Era una specie di “bottega dell’artista”, non un luogo di rappresentanza da ostentare ai visitatori, e lì con la sua macchina da scrivere componeva articoli e saggi con la scioltezza di chi, prima, ha a lungo meditato e riflettuto. Una caduta da pochi centimetri che gli ruppe il bacino. Una scusa eccellente per non rialzarsi mai più.
Gli portai a Villa Salus i fascicoli de La mia Rimini che uscivano col Corriere di Rimini. Guardò il suo pezzo “storico”, Venti secoli e passa, scuotendo la testa : “C…te… – sibilò fra i denti – ero un ragazzino…”. Mi affidò i suoi Sardoni, riletti e corretti almeno una ventina di volte, dicendo: “A chi vuoi che interessi la storia di un gruppo di coglioni idealisti nel dopoguerra…”. Ma si preoccupava che nessuno dei protagonisti potesse riconoscersi con certezza.
Aveva scritto la commedia dialettale più rappresentata e rappresentativa dell’anima contadina riminese: ma era come se non fosse roba sua, come se l’avesse scritta un altro. Mi passò però una copia minuziosamente corretta nelle accentazioni e nel lessico dialettale. Non credo che abbia mai percepito una lira per i diritti d’autore.
Maddalena Fellini, l’interprete più famosa di Stal Mami, lo aveva soprannominato “Duenovembre” per quella sua aria sempre mesta e un po’ mortuaria: l’opposto delle sue risate solari, quando era ancora in salute. Poi, la malattia ha riservato a entrambi la prova della croce, prima a Maddalena, poi a Duenovembre. Ho visto Maddalena morta da pochi minuti, a bocca spalancata. Ho visto Liliano due settimane prima che morisse, steso su un fianco, nel suo letto. Entrambi come ridiventati bambini.
“Su, alzati – gli diceva l’infermiera – hai visite!”. “Non ho voglia” le aveva risposto, ma mi aveva sorriso accarezzando sul lenzuolo il volume su Villa Mussolini che gli avevo portato in regalo. “Alzati, non fare il pataca” gli ho detto: “Leggi, scrivi, insomma fa’ qualcosa”. “Quando sarò guarito” fu la risposta.
Ora Liliano è guarito, la sua paura scomparsa. E i suoi dubbi, finalmente sciolti.
Mario Guaraldi