Pound è la sua poesia, densa, altissima e complessa. Nei suoi Cantos vi è un inaudito omaggio alla Rimini malatestiana, in particolar modo alla figura e all’opera di Sigismondo Pandolfo, in versi intessuti di musica cadenzata e strepitosa erudizione storica. Parrebbe quindi normale intitolare al Poeta il “Campone” di Castel Sismondo, anche se mi sarebbe piaciuto che la richiesta fosse sostenuta da un poundiano di vaglia come Luca Cesari, vir bonus et dicendi peritus, e non da altri che sospetto non l’abbiano neppure letto.
Il problema è però di diversa sostanza. La sua poesia è indivisibile dagli strepitosi saggi letterari e certo anche dalle sue sagaci meditazioni economico-politiche, fieramente contrarie al capitalismo e all’usura, e, occorre dirlo, assolutamente brillanti. Tali riflessioni raccolte, da editori non esattamente di “destra” (Idee fondamentali, edito nel 1991 da Lucarini; L’ABC dell’economia, pubblicato nel 1994 da Bollati-Boringhieri), vanno comprese con saggezza critica, nella prospettiva di un passato crudele ed estremo. L’ebreo, patologia incarnata e Sul discorso di Hitler, per esempio, sono articoli in cui l’avversione del poeta all’usura è indistinguibile dall’antigiudaismo (e da un antisemitismo poi rinnegato), mentre l’adesione al regime fascista e a Salò (ingenua e utopica ma inscalfibile), si estende fino alla difesa del Terzo Reich. Pound venerava Mussolini quanto Mazzini.
Certo la professione di fascismo non c’impedisce di onorare Pirandello che s’iscrisse al PNF dopo l’assassinio di Matteotti, o Ungaretti, né l’avversione inveterata di Dostoevskij contro gli Ebrei di ammirare il romanziere e filosofo. Però il tempo e l’ora (quello delle miserabili minacce alla senatrice Liliana Segre sopravvissuta ad Auschwitz) non ci permettono di pensare a Ezra Pound senza evocare Casa Pound, a cui la figlia del poeta, Mary de Rachewiltz, doviziosa curatrice della sua opera in versi e in prosa, ha tentato inutilmente d’impedire l’esiziale appropriazione del nome. E, come dice giustamente Cacciari, basterebbe aprire a caso una pagina dei suoi libri per capire quanto egli sia agli antipodi da quei meschinelli che fanno il saluto romano il 25 di aprile.
Prima di far calare dall’alto inopportunamente una dedica muta, occorrerebbe pensare e riflettere sull’opera del maestro: meglio sarebbe consacrargli, senza paure un convegno, invitando magari la tenace Mary e sottraendone per sempre ai neri, ai bruni e ai rosso-bruni il nome e il canto. «Il serpentaccio fascista – parola di Pasolini – non ha potuto ingoiare questo spropositato agnello pasquale».
Alessandro Giovanardi