Don Alessandro, diacono da un anno e mezzo, ora diventa prete. Una mosca rara, se si guarda alla totalità dei giovani di oggi; una conclusione naturale se si guarda al suo cammino personale.
È vero, nessuna caduta da cavallo a dare una svolta alla sua vita, ma la figura di san Paolo lo ha sempre incuriosito e stimolato fin da giovanissimo.
“Poiché nella Messa sentivo spesso leggere di san Paolo, vi andavo sempre con la curiosità di vedere come sarebbe andata a finire la sua nuova missione. Seguivo le vicende di san Paolo come si segue un romanzo o un’avventura… ma c’era sempre qualcosa in più di un’avventura”.
Si modellava poco a poco, naturalmente, l’avventura della sua vita.
“I miei genitori gestivano un albergo al mare, ma non avevano piacere che io crescessi in quell’ambiente un po’ dispersivo, per cui, soprattutto d’estate, mi affidavano ai nonni che abitavano alle Celle. Sono stati anni belli quelli delle elementari e delle medie: passavo tanto tempo con mio nonno nel capanno (una sorta di laboratorio con tutti i suoi attrezzi da lavoro), insieme abbiamo costruito una radio, un telefono … aggiustavamo motori… ci ingegnavamo ad aggiustare tutte le cose utili per la casa”.
E la nonna?
“Con la nonna andavo a messa tutte le domeniche e alla sera mi invitava sempre a dire le preghiere. Potrei dire che il nonno è stato il maestro nelle cose materiali, mentre la nonna la mia guida spirituale”.
Ai bambini si chiede spesso: cosa farai da grande? A te l’hanno chiesto?
“Non mi ricordo, ma pare che un giorno abbia detto alla mia maestra che sarei diventato prete. Fantasie di bambino che poi devo aver rimosso completamente dalla mia mente”.
Studiavi molto?
“Non più del necessario … Però prendevo sempre dei buoni voti, forse perché gli altri studiavano un po’ meno di me. Studiavo il giusto, a volte con un po’ di noia, però una domenica, tornando da Messa ho sentito dentro di me una gioia così grande che neanche l’idea dei compiti del pomeriggio me la fece passare”.
Poi in terza media la scelta delle Superiori.
“Per me non è stata una scelta difficile. La passione con cui lavoravo (o giocavo) con mio nonno nel capanno mi ha indicato senza esitare lo studio tecnico. Gli insegnanti mi avrebbero suggerito il liceo scientifico, ma io ho preferito l’istituto tecnico”.
Laboratorio del nonno, studio e scuola… e la parrocchia?
“Da bambino frequentavo la parrocchia di Bordonchio col gruppo degli amici, nulla più. Poi, quando sono passato alle Superiori, dalla terza in poi, ho cominciato a fare l’animatore e il catechista”.
Che cosa ricordi degli anni delle Superiori?
“I primi tre anni sono passati senza alcun evento di rilievo. Poi un campeggio a Pugliano, dove ero andato attirato più dal gelato e che dal contenuto; e invece mi ha fatto scoprire il senso della paternità spirituale: mi sono sentito responsabile, come ’padre’ di quei bambini che mi avevano affidato. Forse è stata questa prima esperienza e il ritrovarmi regolarmente col gruppo in parrocchia a cominciare a farmi riflettere sulle scelte della mia vita.
A schiarire l’orizzonte del mio futuro c’è stato anche un viaggio con don Claudio Comanducci inEtiopia in quinta superiore: un’esperienza missionaria breve, ma intensa, vissuta alla luce degli scritti del cardinale Van Thuan, per tanti anni prigioniero in Vietnam. Tornato a casa ho continuato a leggere il suo libro: Cinque pani e due pesci”.
Dopo la maturità la scelta: o lavoro o università.
“Naturalmente ho scelto l’università, con un po’ di incertezza fra Ingegneria informatica o Istituto di Scienze religiose. Pensavo di fare l’insegnante di religione, ma mia zia mi ha convinto a scegliere l’elettronica. Del resto era la passione nutrita nel laboratorio di mio nonno”.
Ma, a quanto pare, questa volta l’elettronica non ha funzionato.
“Per un anno solo. Poi la svolta: in una Via Crucis del Venerdì santo con l’Azione Cattolica ho confidato al mio educatore che non avevo ancora trovato un padre spirituale. E lui mi ha semplicemente detto: cosa aspetti? Da lì il mio incontro con don Vittorio e successivamente la scelta di entrare in seminario. Era il settembre del 2011”.
Dal 2011 al 2021 sono passati 10 anni. Ci vuole tanto tempo per diventare preti?
“In effetti 10 anni sono molti, ma io provenivo da una scuola tecnica, mi mancavano gli elementi minimi indispensabili del latino, del greco, della filosofia … per cui i primi anni sono stati propedeutici allo studio di teologia vero e proprio. E poi ho prolungato anche il tempo del diaconato, per cui eccomi qua dopo 10 anni”.
I tuoi genitori fanno gli albergatori. Non ti è mai venuto in mente di prendere il loro posto a tempo dovuto?
“Sì, ma in modo un po’ diverso. Un giorno mio padre si lamentava con me: Ho fatto tanti sacrifici per tirare su questo albergo, e adesso a chi lo lascio se tu ti fai prete? Io gli ho detto: lascialo a me, ne faccio una casa di accoglienza per i giovani o per la Caritas. Dopo di che ha pensato bene di far affidamento su mio fratello”.
Per concludere questa nostra conversazione, dopo un anno e mezza di diaconato, e quindi di esperienza pastorale, che cosa puoi dirci?
“Che mi sono divertito moltissimo, soprattutto coi giovani, nell’intessere relazioni con loro e con le loro famiglie. Mi sono lasciato condurre da due linee guida: da Isaia che dice: fa tornare i miei figli da lontano, e le mie figlie dell’estremità della terra; e da san Paolo, che nella lettera agli Efesini scrive: piego le ginocchia davanti al Padre, dal quale ha origine ogni paternità”.
Don Alessandro, tu ora sei a San Mauro e, a quanto pare, ci stai bene. Ma se il Vescovo ti chiedesse di cambiare parrocchia?
“Non è molto importante. Quello che mi dà gioia è saper che il protagonista è Dio: Io ho piantato, Apollo ha irrigato, ma era Dio che faceva crescere” (I Cor. 3, 6).
Egidio Brigliadori