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Papa Francesco, il tradizionalista rivoluzionario

“Papa Francesco ‘mediaticamente’ funziona perché è credibile. Ed è credibile perché non si limita alle parole, ma compie gesti significativi”. Aldo Maria Valli, 55 anni, vaticanista al Tg1, ha appena pubblicato un libro ‘Le sorprese di Dio. I giorni della rivoluzione di Francesco’ edizioni Ancora. Ha seguito in più di 50 viaggi sia Giovanni Paolo II che Benedetto XVI. Ed ha osservato con attenzione – non solo per motivi professionali – le prime mosse di questo nuovo pontificato. “Papa Francesco ha detto di desiderare tanto una Chiesa povera e dei poveri, ma lui stesso ha fatto scelte di povertà, evitando certi sfarzi. Quasi non passa giorno senza che parli della misericordia di Dio, ma lui stesso si comporta in modo accogliente e misericordioso. Basta vedere quanto tempo dedica a salutare le persone, prima e dopo le cerimonie, lasciandosi avvicinare e toccare. E quanto tempo dedica alla comunicazione personale rispondendo alle lettere e usando il telefono”.

Ma il papa riesce meglio a comunicare se stesso oppure le idee che vuole portare avanti per rinnovare la Chiesa?
“Secondo me, per le ragioni che ho esposto, è lui stesso il messaggio. Lui con il suo cuore caldo, con la sua umanità, con il suo linguaggio semplice e schietto, con la sua disponibilità, con la sua saggezza di origine popolare attraverso la quale riesce a raggiungere tutti. Una persona che ho incontrato in piazza San Pietro mi ha detto: «Se prima venivo qui per vedere Giovanni Paolo II e per ascoltare Benedetto XVI, ora ci vengo per toccare Francesco”. Mi sembra una riflessione significativa. Non è che il magistero non ci sia, però questo papa lo ha tolto dalla dimensione intellettualistica e lo ha avvolto in una umanità che rende il suo insegnamento molto più vicino alle persone e quindi più utilizzabile”.

Sono in molti a parlare di “primavera della Chiesa”. Il cardinale Gianfranco Ravasi si è spinto ad affermare che “
“Probabilmente sì, ma dipende dalle attese. Chi si aspetta una rivoluzione dal punto di vista dottrinale penso resterà deluso, perché finora Francesco su questo piano ha dimostrato di non essere per nulla rivoluzionario. Anzi, si muove nel solco della tradizione. Penso alla sua devozione per Maria ma anche per Giuseppe, alla disinvoltura con la quale parla del diavolo, al modo netto con il quale, ad Assisi, ha fatto riferimento alle «piaghe» di Gesù, senza paura di usare un linguaggio del passato. Francesco è un uomo della tradizione, con forti connotazioni popolari che gli derivano dall’adesione a quella «teología del pueblo» di cui sono stati interpreti alcuni suoi maestri in Argentina, come i teologi Lucio Gera e Juan Carlos Scannone. Per adesso ha deciso di non mettere le questioni morali al primo posto, preferendo invece puntare sul recupero del messaggio di salvezza. Se invece parliamo di riforma del governo centrale della Chiesa, penso che Francesco effettivamente introdurrà alcune novità (specie nel senso della collegialità e della semplificazione della macchina curiale, come in parte abbiamo già visto), ma lo farà solo dopo un’ampia consultazione, com’è nello stile dei gesuiti”.

Quanto ha inciso il caso Vatileaks nel rafforzare la domanda di cambiamento dentro la Curia romana e più in generale nell’esigere un diverso rapporto “Chiesa–mondo”?
“Ha inciso molto. Non dimentichiamo che l’ultimo conclave si è svolto in un periodo nel quale la Chiesa era ancora sotto choc per le vicende drammatiche che ben conosciamo. La Chiesa cattolica appariva come un pugile suonato, costretta nell’angolo sul ring dei mass media. Bisogna dare atto a Benedetto XVI di averla tirata fuori da quella situazione con la sua decisione di farsi da parte. Durante le congregazioni generali dei cardinali, che precedettero il conclave, il dibattito si concentrò sull’esigenza di voltare decisamente pagina, ed è lì che la candidatura di Bergoglio emerse in tutta evidenza, soprattutto dopo quel suo intervento, fortissimo, nel quale disse che «Gesù è stato rinchiuso all’interno della Chiesa e bussa perché vuole uscire». Quelle parole dure, coraggiose, colpirono moltissimo i cardinali. Il discorso fu di soli tre minuti, ma fu decisivo. Bergoglio parlò da missionario gesuita, con grande passione, ma anche da uomo esperto di gestione pastorale”.

Passando al tuo ruolo di giornalista, capire la Chiesa attraverso la sua storia, il suo linguaggio e la sua dimensione spirituale è più difficile che trattarla come fosse un’istituzione politica?
“La tentazione di guardare alla Chiesa utilizzando le categorie politiche è sempre forte e penso che non verrà mai meno. Anche perché è molto più facile e sbrigativo spiegare tutto in termini di «destra» e «sinistra», vincenti e perdenti. Richiede meno studio, permette di «sparare» titoli forti e garantisce risultati immediati. Ma ovviamente è un’operazione poco seria. La Chiesa è grande ed è un mondo estremamente complesso. La vera capacità del giornalista deve essere allora quella di saper restituire questa complessità (prima di tutto ricordando che Chiesa non è soltanto il Vaticano e non è soltanto la gerarchia) nel modo più accessibile, perché tutti possano farsi un’idea”.

Qual è il rischio maggiore che corre un vaticanista?
“Ce ne sono tanti, sempre in agguato. Ma forse il principale è quello di ingabbiare un papa e il suo pontificato dentro schemi prestabiliti, che magari sono la proiezione dei miei desideri o delle mie simpatie e antipatie. È un rischio inevitabile, credo, ma proprio per questo occorre guardarsene. L’antidoto è lo studio. Non bisogna mai smettere di approfondire, mettendo a confronto fonti e tesi diverse”.

E che tipo di preparazione deve avere il giornalista che si occupa di informazione religiosa?
“Io credo che in prima battuta sia necessaria una certa sensibilità: occorre sentirsi attratti da quel mondo, aver voglia di entrarci per capirlo e per raccontarlo. Poi è necessario essere preparati in diversi ambiti: la storia, la teologia, la geopolitica. Tutto ciò richiede di leggere e studiare tanto, ben sapendo però che è bene che il giornalista non si trasformi mai in una sorta di accademico, perché in quel caso corre il rischio di allontanarsi dalle esigenze della gente comune e di utilizzare un linguaggio per iniziati”.

Proporresti ‘l’ora di religione’ nelle scuole di giornalismo?
“Dipende da ciò che si intende per «ora di religione». Un’ora di catechismo no e neppure una di teologia. Ma un insegnamento suddiviso in ‘storia delle religioni’, ‘storia della Chiesa cattolica’ e ‘vita e strutture della Santa Sede’ lo vedrei bene. C’è una tale ignoranza in questo campo! Purtroppo c’è anche fra noi comunicatori, e col passare del tempo mi succede di verificarlo sempre più spesso”.

Ma lettori e telespettatori sempre più secolarizzati che cosa si aspettano dall’informazione religiosa?
“Quando realizzo i miei servizi per il telegiornale io devo ricordarmi di essere al… servizio di tutti: colti e meno colti, giovani e anziani, uomini e donne. Il mio è un pubblico ampio e composito, e non posso tralasciare nessuno. Dunque devo cercare di semplificare la complessità della realtà di cui mi occupo, senza tuttavia cadere nella banalità o nella superficialità. Penso quindi che il pubblico si aspetti proprio questo: che io accompagni, ognuno per mano, dentro la realtà che sto descrivendo, cercando di garantire le chiavi di lettura. In secondo luogo non devo urtare la sensibilità di nessuno: devo quindi essere rispettoso sia del credente sia del non credente, sia del cristiano sia di chi aderisce ad altre fedi religiose. Devo possedere quindi, come abito mentale, una rigorosa laicità, che non deve però cadere nel laicismo, cioè nell’avversione preconcetta verso la Chiesa. Non è facile, e probabilmente non sempre ci riesco, ma quella è la tensione che anima il mio lavoro”.

Qual è stato il momento emotivamente più forte della tua ormai lunga carriera?
“Ce ne sono stati moltissimi e spesso, guardando indietro, non mi sembra vero di aver vissuto tanti momenti storici. Ho raccontato ai telespettatori due conclavi (2005 e 2013) e devo dire che l’emozione dell’<+cors>habemus papam<+testo_band> è sempre fortissima. Emozionante è stato anche il racconto in diretta dell’addio di papa Ratzinger al Vaticano, con quel suo volo in elicottero da Roma a Castel Gandolfo. Ma sicuramente il coinvolgimento emotivo maggiore si è verificato in occasione dell’agonia e della morte di Giovanni Paolo II. All’epoca lavoravo al Tg3 e mi trovai impegnato in lunghissime dirette, in piazza San Pietro e in via della Conciliazione. Ancora oggi non so come abbia fatto a trovare la forza per reggere e le parole per raccontare ciò che stava accadendo. Molti mi hanno detto: hai lasciato trasparire le tue emozioni, evitando però di cadere nel protagonismo. Lo prendo come un complimento. Ricordo che le persone passavano accanto alla postazione e, dopo avermi riconosciuto, mi chiedevano: «<+cors>Ha bisogno di qualcosa? Poveretto, chissà com’è stanco! Le possiamo portare un panino?<+testo_band>». E qualcuno mi portò davvero acqua e generi di conforto! Un’esperienza incredibile”.

Giorgio Tonelli