Otello, terzo titolo in cartellone del ROF proposto in un nuovo spettacolo di Rosetta Cucchi con le scene di Tiziano Santi
PESARO, 11 agosto 2022 – Ridurre la tragedia di Otello, appiattendola a un femminicidio che si consuma all’interno di una generica e benestante classe sociale, suscita più di una perplessità. Significa non tenere conto dell’eccezionalità del protagonista e negare ai personaggi quel carattere eroico che, nel bene e nel male, possiedono. Otello ossia Il moro di Venezia non è l’ennesimo dramma borghese che si svolge fra quattro pareti domestiche (anzi, come in questo spettacolo, nella lavanderia di un’elegante dimora), ma una tragedia innescata da tensioni politiche, trame di potere, pregiudizi ancestrali e ottusità familiari. È in questo mondo – indiscutibilmente dominato da uomini – che il desiderio di rivalsa del protagonista e la sua furia omicida si scagliano verso la persona più fragile e vulnerabile.
Così, per giustificare la chiave di lettura scelta dalla regista Rosetta Cucchi (scene di Tiziano Santi e costumi di Ursula Patzak) per il terzo spettacolo del Rossini Opera Festival, fin dalla sinfonia vengono proiettati in modo programmaticamente didattico ritagli di giornali con titoli cubitali su casi di femminicidi. Ma è soprattutto la generica cornice anni venti/ trenta – dove i personaggi si muovono come altolocati borghesi e i matrimoni servono a siglare alleanze di classe – ad omogeneizzare, livellandolo, tutto il potenziale drammatico di un’opera che nel 1816 rappresentava una dirompente novità con il suo finale tragico (tanto che, per assecondare le convenzioni, qualche anno dopo Rossini trasformò la conclusione in lieto fine). Anche la scena, pur bella, che si mantiene pressoché invariata per tutto lo spettacolo, non sempre aiuta a cogliere le variazioni di temperatura drammatica e i mutamenti psicologici dei personaggi. Non bastano infatti le proiezioni video a movimentare quello che non accade in palcoscenico, e appare eccessivo il ricorso al doppio per il personaggio di Emilia, giustificabile in un’ottica di sorellanza femminile ma assai meno in quella del libretto.
Certo, i versi di Francesco Berio di Salsa si basano su uno Shakespeare di seconda mano, che non è dunque una fonte primaria (come in seguito sarà per Verdi), eppure le dinamiche della drammaturgia sono già delineate in modo chiarissimo. Ancora una volta, grazie soprattutto alla musica di Rossini. Si può scegliere così di non raffigurare Otello come un “vile africano”, evitando trucchi e tinture che oggi suonano politicamente poco corretti, ma bisogna comunque trovare il modo di rappresentare l’alterità del protagonista rispetto a un ambiente in cui non si sente accettato: mentre Enea Scala, preoccupato di venire a capo di un’impegnativa scrittura da baritenore, delinea con vocalità disomogenea un personaggio che ha ben poche sfumature e in cui si avverte solo la rabbia.
Eleonora Buratto, invece, è un soprano in grado di affrontare il Rossini serio con ammirevole sicurezza e riesce a imprime a Desdemona grande ricchezza di accenti: dalla più risoluta determinazione alla struggente malinconia della Canzone del salice. Ma Otello, si sa, è opera per tenori. Nel tremendo ruolo di Rodrigo svettava Dmitry Korchak: lo smalto forse non è più quello di qualche anno fa – cantare Rossini logora le voci più di qualsiasi altro compositore – ma la sua resta sempre una grande interpretazione per la capacità di far correre il suono e la grande sicurezza in acuto. A suo agio Antonino Siragusa nei panni del perfido Jago, grazie a un timbro forse divenuto un po’ aspro e che, tuttavia, contribuisce a enfatizzare le caratteristiche negative del personaggio. Elmiro, padre di Desdemona, era interpretato dal basso Evgeny Stavinsky, saldo e al tempo stesso morbido fraseggiatore nella sua inflessibilità. Grande spicco in questo allestimento ha poi la figura di Emilia, assai più che una devota confidente, ruolo assolto dal mezzosoprano Adriana Di Paola con molta convinzione. Ancora due tenori, il quarto e il quinto dunque, completavano il cast: a Julian Henao Gonzales spettavano il ruolo di Lucio e quello – tutt’altro che agevole – fuori scena del gondoliere, mentre Antonio Garés era il Doge. Non sempre irreprensibile, per problemi iniziali di appiombo ritmico, il Coro del Teatro Ventidio Basso istruito da Giovanni Farina.
Ottima invece la prova dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai, in un’opera che impegna alcune prime parti con ruolo solistico, e corretta la direzione di Yves Abel. Peccato che la mancanza di cambi di scena tra un quadro e l’altro – altro sbaglio prospettico di quest’allestimento – l’abbia costretto a una narrazione musicale senza soluzioni di continuità, tali da non rendere sempre giustizia all’andamento drammatico.
Giulia Vannoni