”Ho voluto mettermi in gioco come Lui desidera trasformandomi in dono, ne ho voluto cogliere i segni e mi sono accorto di quale grande tesoro ci sia nell’incontro con l’altro, di quanto ci può arricchire il confronto con chi ha cultura, abitudini e modi diversi dai nostri. Relazioni che sono il pane vero della vita, pane che sfama e che nutre e che permette di alzare lo sguardo da noi stessi nel passaggio dall’io al tu, allontanandoci dall’egocentrismo che ci rende ciechi e uscire dalle abitudini che ci sclerotizzano”.
Oggi ho letto questa riflessione al vangelo del giorno e mi è sembrato che fosse adattissima a riflettere lo spirito che ha guidato un gruppo di persone ad aderire alla proposta di esperienza di viaggio in Etiopia lanciata dalle suore francescane missionarie di Rimini nel periodo natalizio di quest’anno.
Proposta diversa dalle soluzioni di viaggio turistiche classiche, diversa anche dai campi di lavoro volontario, semplicemente offerta come invito a conoscere e a riflettere tramite l’incontro diretto e l’immersione nella vita del popolo etiope e delle missioni delle suore in quella terra.
Gruppo eterogeneo il nostro, nato con motivazioni diverse, non sempre chiare in partenza, composto da persone giovani e meno giovani, aggregato da suor Monica che con alle spalle il bagaglio di 35 anni di esperienza in Etiopia ben sapeva come preparare l’impatto e modulare l’entusiasmo per il viaggio.
L’itinerario è iniziato con una serie di incontri preparatori in cui non si è parlato di Etiopia o di organizzazione, Si è parlato di noi e di come ci stavamo predisponendo… a cosa? Ad affidarci. Cosa ci attendeva?
L’organizzazione era rodata, le suore ci avrebbero guidato, trasportato, nutrito, coccolato. Accolto! E chi di noi pensava che il gruppo avrebbe potuto portare un contributo materiale all’opera delle missioni, ha cominciato a capire che l’invito era invece ad aprire gli occhi e il cuore.
La guida per il viaggio è stato un libro : Cinque pani e due pesci del cardinale vietnamita. François-Xavier Nguyen Van Thuan scritto in carcere premettendo che se Gesù aveva potuto moltiplicare pani e pesci fino a sfamare 5000 persone è perché un ragazzo ha offerto tutto quello che aveva mettendolo a disposizione di tutti.
Il 26 dicembre carico di bagagli il gruppo ha preso il volo all’aeroporto di Bologna. Non avevamo ancora un nome, nemmeno ci conoscevamo tra di noi. La successiva notte Addis Abeba ci ha accolti un po’ frastornati.
Ma c’erano le suore, rasserenante certezza, disinvoltissime alla guida di importanti fuoristrada, a condurci alla missione attraverso le strade deserte della capitale. 2400 metri di altitudine, il cielo limpido, l’aria frizzante, il caffè caldo all’arrivo, come se fossimo persone importanti. E il salto nel tempo, perché il calendario etiope ci ha riportato nel 2012 in pieno avvento.
Il Natale per noi appena passato, là doveva ancora arrivare e si sarebbe celebrato il 7 gennaio. Riavvolgendo il nastro, la nostra avventura è cominciata.
Addis Abeba ci ha riservato un momento storico-culturale con la visita al museo etnografico ai resti della prima donna, la mitica Lucy. Sembravamo quasi normali turisti.
L’immersione nel sommerso è però cominciata con il trasferimento a piedi nella scuola materna della missione attraverso le scene di vita della città, il meccanico, il gommista, rivendite alimentari, il cancello della grande scuola statale dove 2500 allievi frequentano i corsi su tre turni fino a tarda sera.I bambini attendono l’apertura del cancello per intonare per noi un coro festoso.
Sono 150 ordinatamente in fila e sventolanti bandiere. Viene allestita per noi la cerimonia del caffè… senza fretta. Si parte dal caffè fresco che deve ancora essere tostato, su un piccolo braciere, poi pestato, e infine infuso in acqua bollente nella Jebellà di terracotta. L’aroma è coinvolgente.
Nel frattempo viene offerto il grande pane della festa che l’ospite d’onore benedice tracciando una croce sulla sommità prima del porzionamento. Sr Monica ci mostra la ritualità che anche noi ripeteremo nelle occasioni successive. La ragazza serve il caffè in abito tradizionale. L’ospite si sente veramente onorato.
Il pomeriggio ci riserva un colpo allo stomaco con la visita all’orfanotrofio di un istituto di suore maltesi. Qui 80 bambini alcuni con grave handicap sono assistiti in locali ristretti dove i più piccoli restano piangenti nei loro lettini mostrando un grave stato di abbandono.
Vorresti provvedere, fare almeno qualcosa. Invece si va, con grave senso di impotenza. Da questa prima giornata scaturisce la suggestione per il nome del gruppo. Ci chiameremo Nuovo fiore , in lingua locale Addis Abeba.
Nei giorni a seguire visiteremo altre località, alcune assenti anche dalle carte geografiche eppure sede di attività fertile e ordinata della vita di missione, con un centro medico, una scuola, la chiesa e la casa delle suore.
Nell’ordine Shrebera-ber, Wasserà, Ashirà, Kofole, Nazaret. Tra l’una e l’altra l’ordinato susseguirsi dei passaggi in auto, guidati dalle suore a cui ci affezioniamo, e dalle quali è sempre più triste allontanarci.
I percorsi sono caratterizzati da imprevedibili assetti stradali, con traffico caotico nei centri urbani, e carreggiate asfaltate con buche ovunque o sterrate ma soprattutto con una marea di mezzi pesanti e leggeri che guadagna terreno senza regola se non quella del buttarsi avanti e passare e suonare il clacson.
La maggioranza dei mezzi di trasporto è costituita dai Bajaj, molto simili ad apecar e tutti dello stesso colore che possono ospitare tre persone dietro e due davanti, evidentemente economici e versatili.
Contendono il passo a carretti a traino animale o ad asini liberi, mucche e pedoni, ad autocarri con carichi improbabili, rare motociclette con 3 o 4 persone a bordo e qualche bicicletta. I minibus che noi conosciamo a 9 posti, trasportano fino a 18 persone.
Ai bordi della strada il paesaggio muta impercettibilmente dai cantieri edilizi della periferia delle metropoli alle abitazioni di fango della maggior parte della gente, con i mercati improvvisati dei prodotti agricoli, il bestiame in vendita, le carcasse abbandonate dei mezzi incidentati, frutto di evidenti scontri frontali. Non mancano i servizi ”essenziali”: fantastico trovare un gommista nel momento in cui si buca una gomma.
Con una mazza e pochi abili gesti riesce a smontare la ruota e a riparare la foratura, consentendoci di ripartire immediatamente. La suora-autista riprende il volante e la lezione di catechismo interrotta, sotto le domande incalzanti del nostro compagno che le siede accanto.
A Wasserà prendiamo parte alla prima messa domenicale, una festa di partecipazione con canti e danze della corale, che ci trascina per più di due ore , celebrata in lingua cambatese. I nostri occhi rapiti dalla varietà dei fedeli si incrociano con gli sguardi di tutti diretti verso di noi.
Nella stessa chiesa, qualche giorno dopo, Suor Margherita invita me e l’altra mamma del gruppo ad incontrare le mamme del villaggio. Saranno 200. Non scorderò le loro mani levate verso di noi nel gesto di benedizione.
E’ domenica. I giovani del gruppo incontrano i giovani del villaggio in una partita di calcio. Il pallone giunto dall’Italia rende possibile l’evento, nel campo un po’ sconnesso dove le mucche continuano a pascolare. Il linguaggio universale dello sport rende invisibili le barriere linguistiche.
Termina la giornata al buio. La corrente è opzionale, la sera di solito se ne va, così come l’acqua corrente. L’assenza completa di connessione internet comincia a renderci meno vincolati alle dipendenze tecnologiche.
Il primo giro tra le famiglie ci fa toccare con mano alcune situazioni di povertà estrema, dove lo sguardo disincantato e concreto delle suore impedisce a noi di lasciare spazio alla frustrazione. Il gruppo mette mano al portafoglio e finanzia l’acquisto di una mucca da latte per una famiglia numerosa.
Nel cielo stellato brilla una grande luce sotto una falce di luna.
Non ho mai visto un corpo celeste così brillante. La suggestione vorrebbe identificarla nella cometa. In fondo siamo a pochi giorni dal Natale etiope.
Finalmente il primo giorno feriale sembra offrirci la possibilità di renderci utili. Vorremmo fare tanto. Gli uomini si dedicano alla manutenzione di alcuni impianti, le ragazze si recano alla scuola e decorano gli ambienti, in tre siamo destinate al centro medico.
Abituate al lavoro supportato dalla tecnologia ci rendiamo conto che l’attività sanitaria qui deve poggiare più sull’esperienza pratica che sugli strumenti. I paramedici meglio dei medici si muovono utilizzando le risorse disponibili e prescrivendo le terapie conosciute.
In fondo senza il supporto di un mediatore linguistico e culturale, la mia competenza medica sarebbe completamente inutile. Imparo. Imparo che si parte da quello che c’è e si fa quello che si può, accettando di non essere in grado di risolvere se non i problemi di base.
Resta lo stupore per ogni vita che nasce. Ogni piccolo uomo o donna che viene al mondo suscita gioia. Bellissimo che ogni neonato riceva un corredino prima di lasciare la clinica.
Il calendario italiano ci impone una nuova pausa in coincidenza con il nostro capodanno che viene festeggiato in nostro onore con un sontuoso pranzo all’aperto. Una capra viene sacrificata ai festeggiamenti, mentre a me compete la produzione di 20 uova di tagliatelle, artisticamente tirate sul tavolo con un matterello di fortuna.
La cucina si esprime in un ragù all’altezza della situazione, mentre a fine pasto compaiono frutti esotici mai visti prima e deliziosi.
Viene il momento della partenza. Le novizie ci lanciano petali di fiori. Ci attende Ashirà. Troveremo un ambiente povero, ma sempre di lusso rispetto al contesto.
Sottolineo in questa località l’incontro con il gruppo scout locale, altra inattesa occasione di utilizzare un linguaggio comune e universale nei gesti e, sorprendentemente, nei canti, in lingua italiana. Con gli scout è nato un momento di collaborazione nel giorno di Natale, il 7 gennaio, che ha visto loro e noi insieme per il pranzo offerto ai poveri.
Il piccolo contributo offerto dal gruppo alle strutture della missione consiste nella tinteggiatura di alcune pareti della scuola, nella riparazione delle divise scolastiche, nel servizio medico e infermieristico al centro medico.
Incredibilmente mi rendo conto che in questo centro manca anche la possibilità di effettuare un esame emocromo, e mi sembra necessario proporre al gruppo un impegno di reperimento di risorse per fornire l’apparecchio al centro.
Di nuovo ci si trasferisce. A Kofole , in altura, gli sportivi hanno modo di visitare il centro in cui si è allenata una campionessa di atletica locale. La realtà del luogo si raffronta con la maggioranza della popolazione che è musulmana.
La scuola rappresenta un luogo importante di integrazione. Alunni e insegnanti vivono insieme pur essendo di religioni diverse. E’ una toccata e fuga.
L’ultima tappa è Nazaret, alla periferia della città di grandi dimensioni, e di conseguenza di grande traffico.
La missione è nuova, ospita un importante centro di accoglienza, una scuola professionale, e una gelateria da poco inaugurata con una produzione di gelato favoloso. La città è sede di un carcere, i cui detenuti producono alcuni manufatti che ci piace acquistare perché pieni di significato.
Si avvicina la data del ritorno. Percorriamo l’ultimo tratto di strada verso Addis Abeba.
Il ritorno ci riserva il vuoto dell’abbandono del gruppo ormai coeso. Manca la campanella che chiama alla preghiera e la preghiera cantata con la comunità.
Questo viaggio è stato un periodo di conoscenza di una realtà non mediata da letture di altri, un contatto diretto con la vita di gruppo prima di tutto, poi con la vita così diversa di chi realizza giorno per giorno le necessità del momento, di chi indossa un solo vestito per tutte le occasioni, di chi professa una fede convinta, di chi ti accoglie con un abbraccio semplicemente perché non ti ha mai visto prima, e anche o forse perché sei diverso.
Porterò nel cuore la festa delle celebrazioni danzate al ritmo dei tamburi, il canto gioioso dei cori dei giovani, la benedizione di centinaia di mani alzate a nostra protezione. Porterò tutto questo nella mia vita di tutti i giorni perché chi mi sarà vicino riceva impercettibilmente una risonanza di questo dono ricevuto. Cercherò di mantenere questo spirito nel mio quotidiano perché il viaggio continui e non sia stato inutile.
Nel concreto si mettono in evidenza nel mio pensiero i progetti nati durante il viaggio e i programmi per metterli in atto: l’apparecchio per l’esame emocromocitometrico, il restauro dei banchi della scuola, il disegno di promozione della donna e del microcredito.
La notte mi ha suggerito un’aggiunta che potrebbe essere messa nel finale.
A Rimini le nostre suore sono molto conosciute. Pochi immaginano che la loro presenza ha portato piccole isole di spirito Riminese nel mondo. Nelle missioni in Etiopia tutte le suore, che sono etiopi, parlano e pregano in italiano, anzi anche in dialetto romagnolo, cucinano spesso i piatti della nostra tradizione, si sentono in parte appartenenti alla nostra realtà.
Si potrebbe prendere lo spunto per un gemellaggio tra Rimini e Addis Abeba o uno dei tanti villaggi che hanno portato i riminesi in Africa. Sarebbe uno scambio felice.
Patrizia Ortolani