Quando si tratta di architettura sacra, lo spazio va concepito come luogo teologico. In particolare le chiese sono “luoghi di involucri”, ambienti articolati su dimensioni concentriche al cui cuore si trova il Sancta Sanctorum, il Tabernacolo che racchiude l’Offerta salvifica, il Corpus Domini.
Ogni chiesa è anche uno spazio oltre il tempo ed oltre il mondo, ma capace di attirare a sé il mondo stesso, quindi una realtà antropologicamente catalizzatrice. Questo risulta particolarmente evidente esaminando la genesi di quelle chiese che chiamiamo “Pievi”.
Il termine “pieve” deriva dal latino plebs, a sua volta diminutivo di populus, che rimandava ai ceti più umili e che passò ad indicare le comunità cristiane. Avendo tali comunità l’abitudine di riunirsi presso gli edifici per il culto, questi ultimi, divenendo identificativi delle comunità stesse, finirono per assumerne la definizione generica.
Queste architetture – appunto le “Pievi” – assunsero importanza poiché davano modo alle collettività residenti in zone distanti dalle Cattedrali di accedere alla comunione con la Chiesa visibile e ai Sacramenti, in particolare il Battesimo, necessario per divenire membri del Corpo Mistico di Cristo. Peculiarità delle Pievi, infatti, divenne la presenza del fonte battesimale. In quel gioco di analogie che soggiace alla psicologia delle collettività, nascita e morte sono inscindibili. Lo si riscontra in tutti i riti di passaggio, non esclusi i momenti dell’iniziazione cristiana: il Battesimo è morte e rinascita in Cristo, così come lo è, se si è in stato di grazia, la morte del corpo. Se all’interno della Pieve troviamo il fonte battesimale, all’esterno troviamo il cimitero.
Essendo spazi tanto della vita spirituale quanto di quella civile, luoghi di aggregazione e reciproco riconoscimento in entrambe le accezioni, l’appartenenza ad una Pieve appariva negli atti notarili.
Di un’antica Pieve non più esistente, quella di San Marino, si è occupato l’architetto Johnny Farabegoli, docente di Architettura e Liturgia presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose “A. Marvelli” e responsabile dei beni ecclesiastici per la Diocesi di Rimini, nel corso della conferenza dal titolo “Un’architettura di segni e di luce”, tenuta al Museo Pinacoteca San Francesco di San Marino.
La Pieve scomparsa, con tutta probabilità a tre navate, si costituì intorno al IV secolo. Come non di rado accadeva, un originario nucleo centrale venne circondato da una cornice esterna a base quadrata, quasi sicuramente più bassa, per poi aggiungervi, solo più tardi, la cripta, in seguito all’acquisizione d’importanza del culto di San Marino e delle sue reliquie.
Modificata nel corso del ‘600, due secoli dopo l’antica Pieve versava in condizioni di grave degrado; venne pertanto abbattuta e sui suoi resti fu edificata l’attuale Basilica (nella foto Lorenzo Taccioli), la cui costruzione si protrasse dal 1826 al 1838.
Degne di nota per il loro valore simbolico, sono le aperture che si incontravano percorrendo il perimetro dell’edificio: due sul fondo, oltre l’altare, a rappresentare la luce della Risurrezione, e due dalla parte opposta, all’ingresso, che ovviamente si incontravano uscendo dalla chiesa, ad indicare la “luce futura”, la Parusia, ovvero la seconda venuta di Cristo, alla fine dei tempi.
Il modo di gestire la luce in una chiesa medievale intende evocare sempre il biblico “Sia la Luce!” (Genesi 1,3), che, pronunciato prima della creazione degli astri, non allude alla luce di quelli, ma alla “prima Luce”, quella increata, al Logos Eterno. Non è una luce da pensarsi in termini di “quantità di illuminazione”, ma in termini qualitativi; non va concepita come “presa dall’esterno”, ma come se dall’interno stesso scaturisse e come se lì fosse sempre stata, metafisicamente da sempre e per sempre.
Filippo Mancini