Il divario retributivo tra uomo e donna esiste. Questo è un dato di fatto, sono i numeri e le statistiche a dirlo. Quello che si comprende di meno è dove e quando questa piccola voragine comincia a formarsi.
Stando alla busta paga e ai dati sui lavoratori dipendenti del privato raccolti dall’Osservatorio JobPricing e diffusi nella primavera del 2017, gli uomini percepiscono mediamente una retribuzione annua lorda di 30.676 euro, contro i 27.228 euro percepiti dalle donne. Un divario che è cresciuto dal 2015. Da quel momento infatti si è registrato un aumento per le retribuzioni degli uomini pari al 2,3% e dell’1,9% per le donne.
Ma in Italia la legge prevede la parità retributiva fra uomini e donne. Anzi, nel nostro Paese è in vigore anche l’articolo 46 del Decreto Legislativo 11 aprile 2006 n. 198, (modificato dal D. Legislativo 25 gennaio 2010 n. 5 in attuazione della direttiva 2006/54/CE relativa al principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione).
Un articolo che prevede che “Le aziende pubbliche e private che occupano oltre cento dipendenti sono tenute a redigere un rapporto almeno ogni due anni sulla situazione del personale maschile e femminile in ognuna delle professioni e in relazione allo stato di assunzioni, della formazione, della promozione professionale, dei livelli, dei passaggi di categoria o di qualifica, di altri fenomeni di mobilità, dell’intervento della Cassa integrazione guadagni, dei licenziamenti, dei prepensionamenti e pensionamenti, della retribuzione effettivamente corrisposta”.
Allora in che punto della catena si genera il divario retributivo di genere?
“Il divario si crea nei contratti di secondo e terzo livello. – spiega Ilde Magalotti, responsabile Coordinamento donne della Cisl Romagna – Il discorso è molto complesso, perché il contratto nazionale detta delle linee guida e poi le diverse realtà lo adattano secondo questi standard, ma ovviamente hanno dei margini di manovra”.
Secondo la Magalotti il problema non è contrattuale ma culturale. “La differenza sostanziale è che ci sono delle cose errate che però sono accettate. Come per esempio l’idea che lo stipendio della donna sia un qualcosa in più che viene portato a casa. Questo è un concetto che può, in alcuni casi ovviamente, spingere le donne ad accontentarsi. Ma non è così”.
Se si considera che in Italia, il 70% dei part-time viene coperto da figure professionali femminili ecco che entra in campo un altro fattore: quello dell’impegno che la donna può dedicare al tempo del lavoro, “impegno che poi andrà a influire sulle pensioni di base” termina la sindacalista.
Ad onor del vero bisogna anche dire che in Italia, la differenza di stipendio tra uomini e donne è la più bassa di tutta l’Unione Europea. Lo scorso ottobre L’Istat ha diffuso una pubblicazione redatta da Eurostat nella quale è emerso che, in media, le donne guadagnano il 5,5% in meno degli uomini, primato condiviso con il Lussemburgo, a fronte di una media Ue del 16,3%. Le differenze più ampie si registrano in Estonia (26,9%), Repubblica Ceca (22,5%) e Germania (22,0%); quelle minori, oltre a Italia e Lussemburgo, Romania (5,8%) e Belgio (6,5%). Questo primato, seppur lusinghiero, va però preso con le pinze perché il dato considerato da Eurostat è il “salario orario medio” mentre rispetto al rapporto di JobPricing che considera il reddito annuo lordo il nostro Paese raggiunge vette meno felici. In questa classifica l’Italia si posiziona al 50esimo posto su 144 Paesi analizzati.
Guardare i numeri può essere utile ma non fondamentale: quel che serve è un cambio culturale. Perché è vero che le donne si fanno carico più degli uomini della cura della famiglia, dei genitori anziani, dei figli. E spesso, questo carico non è supportato con adeguati servizi di sostegno. “Siamo sinceri – conclude la Magalotti – se un bimbo si ammala chi rimane a casa da lavoro? L’uomo o la donna?”. Nemmeno a farsi la domanda…
Angela De Rubeis