“Che le prediche siano noiose è storia vecchia, anzi vecchissima. Già gli Atti degli Apostoli narrano che san Paolo con un lungo discorso fece addormentare il giovane Eutico, il quale trovandosi seduto sulla finestra cadde dal terzo piano e venne raccolto morto (poi fu risuscitato ndr). La differenza (positiva per i fedeli) è che oggi le chiese sono generalmente costruite al livello del suolo, altrimenti rischieremmo l’ecatombe ogni domenica”. Così, simpatico, pungente e provocatore il giornalista dell’Avvenire Roberto Berretta inizia il suo libro “Da che pulpito… Come difendersi dalle prediche”.
Abbiamo raccolto la sua provocazione e scelto un pubblico esigente, come quello che va dai 30 ai 50 anni, per verificare se la sorte di Eutico potrebbe oggi toccare anche a qualche fedele riminese.
Silvia, 42 anni, prima un percorso in un movimento, poi un po’ di tiepidezza nella fede: “A messa vado, ma non sempre. Le omelie? Se sono strettamente legate al testo biblico mi annoiano; mi piacerebbe avessero più spunti vicini alla vita. Insomma le trovo un po’ troppo tecniche, quasi scientifiche. Desidererei che fossero più calde, coinvolgenti”.
Come quando frequentavi il movimento…
“Certo. Il sacerdote partiva dal testo, ma poi lo applicava alla vita, legando le persone ad un impegno. Ti lasciava molto, ti spingeva a riflettere. Uscivi dalla messa con la sensazione di esserti arricchita”.
Ma è difficile trovare un giudizio unanime, anche perché ognuno è motivato da una situazione personale diversa. Per esempio per Francesca, 40 anni, riminese, il prete “dovrebbe spiegare di più il Vangelo. Vorrei che facesse un’analisi più profonda del testo. A volte la trovo un po’ troppo semplicistica”. Poi precisa: “C’è una chiesa in cui però trovo quel che cerco e ci vado spesso”.
Melissa ha 39 anni, non è legata ad una comunità parrocchiale e cambia spesso chiesa: “Complessivamente dò un giudizio positivo. Certo, i preti non sono tutti uguali, l’attenzione dipende molto da chi celebra. Mi piace l’approfondimento della Parola di Dio, come anche l’attualizzazione. Senza esagerare però! Ricordo un Natale di qualche anno fa che sono uscita di chiesa, perché il prete si era messo a parlare di contratti di lavoro…”
Nicolò, ha due figli ed è attivo nella sua comunità: “Quel che vorrei di più dal mio parroco è che oltre alla spiegazione del Vangelo, ci fosse il tentativo di un raccordo con la vita di tutti i giorni. Insomma vorrei capire cosa quelle letture dicono a me, uomo che vive nel 2010”.
Michele ha superato i 50 anni ed è un giovane nonno. Ed è un po’ polemico: “Forse i preti dovrebbero osservare di più la gente mentre predicano. Credo non sia difficile capire quando è ora di chiudere. Le prediche non dovrebbero superare gli 8-10 minuti, perché tutto quel che si dice dopo è come il vento, fiato sprecato. I nostri figli poi, e ancor più i nipoti crescono con un linguaggio fatto di spot, immagini, emozioni… ”
A Carlo, 37 anni, piace il modo di esprimersi del suo parroco che trova “chiaro e accessibile a tutti”. Anche la durata, mai superiore ai 10 minuti è ottima, “ma eviterei altri 10 minuti di avvisi alla fine della messa”. Carlo frequenta anche un prete amico: “Mi piace molto come attualizza la Scrittura. Ci trovo riferimenti non solo biblici o culturali, ma anche alla società e alla vita quotidiana. E questo senza compiacersi della sua cultura, continuando ad utilizzare un linguaggio semplice”.
Anche il parroco di Paolo, 47 anni, usa un linguaggio “semplice, chiaro per tutti, dai bambini agli adulti. Quel che chiederei è un maggiore approfondimento teologico e non limitarsi alla descrizione del brano. Oggi la gente non ha più una conoscenza approfondita dei contenuti di fede e l’omelia è forse l’unica occasione per avere disponibilità all’ascolto”. E qui Paolo forse confonde l’annuncio dell’omelia con la catechesi, luogo, disertato, dell’approfondimento.
Qualche perplessità sull’eccessiva importanza del linguaggio la esprime Luca: “Senti subito se il prete dice cose che sente come sue, se è il primo che è interpellato da quel che dice. Non sono le strategie comunicative, pur importanti, che diffondono la fede. È la fede che si comunica, se c’è”.
Concreta è Daniela, 47 anni: “Non so dire se il mio parroco sia bravo a predicare. L’impianto della nostra chiesa gracchia e si capisce un quarto di quel che dice”.
Mirco, soprattutto d’estate frequenta più parrocchie. Oltre alla sua, quella dei genitori e dei suoceri e qualcun altra occasionalmente. “Dò complessivamente un giudizio positivo. Quella che preferisco è la mia parrocchia, perché il prete lega molto la Parola di Dio al percorso che fa la nostra comunità. Il suo modo di parlare è incisivo rispetto alla vita insieme. Mi fa sorridere, nel senso che mi diverte, un sacerdote, dove vado occasionalmente, al quale piace fare un po’ lo show nel modo di raccontare le cose. Sembra quasi ricercare il consenso di chi ascolta. Non per questo non commenta il vangelo, ma diciamo che preferisco un atteggiamento un po’ meno da protagonista. Tutti i sacerdoti che frequento si sforzano di essere comprensibili ed anche attenti ai bambini, che non è cosa cattiva, anche perché se capisce mia figlia, capisco anch’io”.
Difficile tracciare una conclusione valida per tutti. Chi frequenta la messa sembra avere motivazioni tali da “sopportare” anche certe omelie. Del resto, anche se il campione è poco significativo il giudizio che emerge sull’omiletica del clero riminese pare abbastanza positivo. Quel che affermano tutti è che un annuncio semplice ha la potenza incredibile di attirare la gente. La persona percepisce con il cuore prima ancora che con la testa. Il Vangelo chiede solo di essere annunciato. Magari ricordando le quattro regoline che quella mamma disse a suo figlio, novello sacerdote: “Parla chiaro, non correre, un’idea alla volta e sii breve”.
Giovanni Tonelli