Facebook è uno degli strumenti più influenti della nostra epoca. Si può discutere in lungo e in largo della sua utilità, certamente. Ma rimane inconfutabile il fatto che Facebook ha rivoluzionato radicalmente il nostro concetto di società, socialità ed identità personale. In tutto questo, però, il social network nato dalla mente di Mark Zuckerberg nel lontano 2004 è, e rimane, uno strumento. E, come tutti gli strumenti, non può essere giudicato in sé, ma per come viene utilizzato. Trovarsi al sicuro dietro allo schermo di un computer, infatti, dà molto coraggio a chi solitamente ne è privo, permettendo così di sfogare frustrazioni, rabbia e tanta ignoranza. Il risultato? Facebook, col passare del tempo, è sempre meno luogo di socializzazione e sempre più un contenitore di odio, in tutte le sue forme. Alla luce di questo le istituzioni, la magistratura soprattutto, attraverso la Corte di Cassazione, non sono rimaste a guardare, agendo per rendere i social network, e Facebook in particolare, luoghi sempre meno simili a far west virtuali.
Dal Far West… al penale
Un primo passo verso la regolamentazione dei rapporti interpersonali attraverso la Rete, nella dimensione del loro inevitabile scontrarsi, è stato compiuto dalla Suprema Corte nel marzo dello scorso anno. Con la sentenza numero 8328 del primo marzo 2016, infatti, essa identifica Facebook non come mero sito Internet, ma come vera e propria pubblica piazza, anche se immateriale. Da ciò deriva, come logica conseguenza, che un qualsiasi insulto pubblicato attraverso il social network in questione è potenzialmente raggiungibile da una pluralità indistinta di persone, portando all’inevitabile offesa alla reputazione del destinatario dell’insulto. Caratteristiche, queste, che rendono l’atto dell’insulto attraverso Facebook un puro esempio di diffamazione, come esplicitamente previsto dal nostro codice penale, che all’articolo 595 recita: “Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, comunicando con più persone offende l’altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a euro 1.032“. E, in quanto atto diffamatorio, non può essere il Giudice di pace a decidere su eventuali attacchi personali attraverso post di internet, bensì il Tribunale. Ne è un chiaro esempio la condanna per diffamazione pronunciata lo scorso 29 marzo ai danni di una 26enne riminese che, nell’ottobre del 2013, aveva criticato aspramente il noto locale Coconuts dopo una serata, sulla propria bacheca di Facebook.
Diffamazione o… critica?
La reputazione di un individuo, però, può anche essere offesa da una critica legittima, e non solo dagli insulti e dagli attacchi personali. Che rapporto sussiste, quindi, tra la critica, diritto tutelato e difeso dalla stessa Cassazione, e la diffamazione, che invece è punita? Per rispondere a questa domanda, occorre andare ancora più indietro nel tempo. È sempre la Cassazione a offrire la soluzione al quesito, con la sentenza numero 6902 dell’8 maggio 2012, nella quale vengono individuati i criteri che permettono ad un qualsiasi pensiero espresso di rimanere entro i confini della critica legittima, evitando di trasformarsi in atto diffamatorio: verità, pertinenza e continenza. Qualsiasi altro comportamento, dunque, che non abbia queste caratteristiche è punibile, anche se avviene attraverso un “semplice” post di Facebook.
È semplice diffamazione?
Col passare del tempo, però, i rapporti personali attraverso la Rete, e quindi attraverso i social network, si sono evoluti, diventando più complessi. E, inevitabilmente, gli episodi di conflitti tra persone non sono diminuiti. In tutto ciò la Suprema Corte non è rimasta a guardare, specificando ancora di più le caratteristiche di un comportamento diffamatorio compiuto nel mondo virtuale.
E lo ha fatto con la sentenza numero 50, pubblicata in tempi molto recenti, lo scorso 2 gennaio. Nella sentenza viene stabilito che l’insulto virtuale non integra una pura e semplice diffamazione, ma rappresenta un atto di diffamazione aggravata: l’articolo del codice penale, infatti, dedicato alla diffamazione prevede anche le sue forme aggravate. In particolare, al comma 3, esso recita: “Se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a euro 516”. “Qualsiasi altro mezzo di pubblicità”: una frase che non lascia scampo a Facebook, ritenuto dai giudici un luogo in cui un’offesa è potenzialmente capace di raggiungere una quantità incredibile di persone, istantaneamente. Gli stessi giudici, inoltre, hanno precisato che la natura di “altro mezzo di pubblicità” enunciata nel codice penale, al fine di integrare la diffamazione aggravata, non è esclusa dal fatto che Facebook è accessibile solo da chi vi si registra: è di per sè sufficiente la grande capacità diffusiva dello strumento.
Facebook e stampa
Ma Facebook, inserito tra le aggravanti della diffamazione, è da intendersi come un mezzo di stampa? La risposta della Cassazione è chiara e precisa: no. Anche se l’offesa attraverso Facebook si configura come reato, non può essere definita come diffamazione a mezzo stampa, perchè il social network non è assimilabile ad un organo di informazione, anche se la stragrande maggioranza delle persone lo utilizza in tal senso. A chiarire in modo netto questa situazione è la sentenza, molto recente, numero 4873 dello scorso 1 febbraio. La notizia di questa importante decisione è stata diffusa da Il Sole 24 Ore (Alessandro Galimberti), che precisa come “già due anni fa le Sezioni unite, disegnando una «interpretazione evolutiva e costituzionalmente orientata del termine stampa», avevano ricompreso nel concetto le testate giornalistiche online, ma avevano anche aggiunto che «tale operazione non può riguardare in blocco tutti i nuovi media, informatici e telematici, di manifestazione del pensiero (forum, blog, newsletter, mailing list, Facebook, ecc.), ma deve rimanere circoscritto a quei casi che, per i profili strutturale e finalistico, sono riconducibili al concetto di stampa»: caratterizzata quest’ultima, in sostanza, dalla «professionalità» di chi, scrivendo, diffama”.
L’analisi dell’esperto
Alla luce della ricca attività della Suprema Corte, appena analizzata, è interessante ascoltare il commento di un professionista del settore sul tema in esame. “La diffamazione su Facebook – le parole di Luca Ventaloro, avvocato riminese – si verifica quando le espressioni offensive sono inserite negli spazi ’pubblici’ (bacheca, aree destinate ai commenti o alle informazioni personali, ecc.), oppure quando la comunicazione avviene tramite messaggi privati indirizzati ad almeno due persone”. Come difendersi, come agire nel caso ci si trovi a subire un atto diffamatorio attraverso il social network? “Una volta che si ritenga di aver subito una diffamazione su Facebook, – continua Ventaloro – occorrerà sporgere querela entro tre mesi dal fatto. Querela che va presentata alla Procura della Repubblica, ai Carabinieri o presso la Polizia Postale. Il termine di tre mesi decorre, però, da quando la vittima ha avuto notizia della diffamazione ed è onere del soggetto che si ritiene diffamato provare il fatto. Come? Portando, ad esempio, l’immagine stampata con impresse le scritte diffamatorie, o indicando dei testimoni che possano confermare l’avvenuta pubblicazione. Si suggerisce di fare in modo che l’immagine stampata sia autenticata da un notaio, in quanto semplici immagini su schermo potrebbero essere manipolate o modificate. È importante, poi, specificare che il solo responsabile delle offese postate su Facebook è il soggetto che ha scritto le frasi, e non anche la società proprietaria del social network stesso, pur essendo quest’ultima l’effettiva proprietaria di tutti i contenuti. Purtroppo i reati commessi su Facebook sono oggi in aumento esponenziale, – conclude l’avvocato – a seguito dell’uso oramai capillare nella vita di tutti i giorni della piattaforma. Gli utenti appaiono ancora poco accorti, anzi avventati ed imprudenti, non consapevoli che l’offesa e la denigrazione di onore e reputazione postate su internet, saranno viste da migliaia di persone e rimarranno lì per molto tempo. Facebook non è una stanza chiusa, né un colloquio privato: Facebook oggi è il mondo”.
Simone Santini