Quest’estate in un centro estivo riminese, una bambina è caduta a terra mentre giocava. Due coetanei le hanno detto: “Ti sta bene che sei caduta. A terra devono stare i negri”, e l’altro: “Io vicino ad una negra non ci sto”.
Pochi giorni fa ho raccolto da una bambina una confidenza. Era triste perché i suoi compagni di classe le dicono: “sei una negra”. In realtà è solo appena scura di pelle (il sogno estivo di ciascuno!), perché il papà è magrebino. Ma per quei bimbi proprio questo è il motivo per insultarla.
Gli italiani non sono razzisti, ma si impegnano a diventarlo. I maestri li abbiamo in parlamento. Negli ultimi due anni a Montecitorio (non dunque fra gli scaricatori di porto, mi scusino questi ultimi per il paragone) sono stati registrati 1483 casi di violenza verbale razzista. Erano stati 319 nello stesso periodo, dieci anni prima.
Lasciamo perdere le violenze fisiche, per ora ad appannaggio di disadattati, per lo più realtà di gruppo, di branco si dice, capace però di scatenare un’aggressività che non conosce limite, che spesso scatta all’improvviso e viene rafforzata dal gruppo. La gran parte delle violenze razziste è verbale (che non fanno meno male).
Molto di questo impegno lo si deve ai social. Un’indagine ci avverte che in sei mesi sono stati trovati in Twitter (dunque legati più al mondo adulto che adolescenziale) 412mila tweet misogeni, razzisti e omofobi.
Qualcuno contesta il Papa per il suo continuo insistere sull’accoglienza degli stranieri. Senza aprire in poche righe un confronto davvero complesso, è impressionante come molti non comprendano che sono temi su cui si gioca la pace oggi e nel futuro dei nostri figli. E che siano poi cristiani quelli che se ne dimenticano è come essere immemori della vocazione universalistica ed ecumenica del cristianesimo, costituzionalmente, per natura, antirazzista.
Nell’anno in cui la Chiesa vuole impegnarsi nell’ascolto dei giovani è fondamentale, su questi temi, ribadire l’importanza di una comunità educante. Pace, accoglienza, dialogo, ascolto, responsabilità, perdono, impegno personale sono tutte parole che indicano un mondo diverso di quello che il nostro mondo adulto indica ai giovani. E allora, occorre davvero di fronte al male, alla cattiveria, al “diavolo” come indica il Papa quando parla di violenza, smettere di voltare le spalle, di volgersi dall’altra parte, di far finta di non vedere e sentire. Tocca a noi intervenire, non delegare ad altri quello che è il nostro ruolo educativo. Di ognuno. Lo sforzo da assumere è quello di sentirsi tutti comunità educante, nessuno escluso. È in gioco il futuro.
Giovanni Tonelli