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Non scappare, fatti carico

Dio, Padre della vita, insegnaci come il soffrire possa diventare luogo di apprendimento della speranza”. Conforme allo spirito dell’anno giubilare, è questo il primo significato della Giornata Mondiale del Malato tenutasi l’11 febbraio. Una ricorrenza in occasione della quale, in molte comunità parrocchiali, si è celebrato il sacramento dell’unzione degli infermi e si è dedicata un’attenzione particolare a chi sta affrontando la prova della malattia.

Quando essa colpisce è come se inevitabilmente creasse una demarcazione fra i sani e i malati e il rischio è che chi soffre veda aggravata la propria situazione da un senso di solitudine e di abbandono. Decisive sono in tal senso le famiglie perché è al loro interno che si consuma il dramma di ogni sofferenza fisica e psichica.

Quando un membro è colpito tutti gli altri sono chiamati a farsi carico di questa persona che ha bisogno di aiuto materiale, cura e ascolto.

Pensiamo ai nonni: la loro fragilità ricade sulle spalle dei figli, dei generi e delle nuore e, se non è soccorsa con mitezza, essa diviene un fardello ingombrante, che viene sopportato senza che il peso sia davvero alleviato a chi soffre in prima persona. Quando ad ammalarsi è una madre o un padre di famiglia in giovane età e questi deve interrompere il lavoro, magari essere ricoverato in ospedale per un lungo periodo, le necessità divengono più pressanti e la famiglia è chiamata a reggere l’urto con ancora più coesione. Quando poi gravi malattie colpiscono i bambini fin dalla tenera età, il mistero del male zittisce anche le persone più eloquenti. Tutti vorremmo che non esistesse il dolore innocente, ma ci rendiamo conto che pregare solo perché questo calice sia allontanato non è quello che il Signore ci domanda. Ci è chiesta una preghiera di più ampio respiro, più coraggiosa, che si fa carico della sofferenza altrui e si traduce in gesti d’amore concreti, tangibili, in uno sforzo di immedesimazione misericordiosa, come se fosse successo a noi. I cristiani sono chiamati a pregare il Padre e poi a spendersi toccando e sanando le ferite dei fratelli, proprio come ha fatto Gesù che ci ha dato, con il suo Spirito, questo potere. Affidarsi a Lui e vivere come fratelli fra noi significa evitare sia il fatalismo sia l’indifferenza. D’altro canto ad una famiglia che vive il dramma della malattia è chiesta una testimonianza tanto difficile quanto preziosa, ovvero quella di rimanere unita e non perdere la speranza. Non solo la speranza della guarigione, che non sempre sarà possibile, ma anche e soprattutto quella che la sofferenza non è senza senso, ma è un luogo in cui si può sperimentare la presenza del Signore risorto che passa anche attraverso quella croce.

Le famiglie con un malato fra loro possono essere davvero delle fonti di luce. Da esse possiamo apprendere molto e ad esse possiamo offrire la nostra prossimità, senza temere di incontrarle, ma anzi mettendoci sulla loro strada per fare un tratto di cammino insieme.

Giovanni Capetta