A scuola, negli oratori, nelle comunità, praticando sport, in famiglia, in parrocchia, praticamente ovunque la parola chiave è sempre una: educazione. Un termine molto spesso utilizzato a sproposito, conoscendone solo il significato più superficiale, forse anche per la poca preparazione della maggior parte delle persone, che lo concepiscono come un risultato piuttosto che un processo dinamico. Per la serie: educare significa far rispettare determinate regole, rendendo il tutto più appetibile aggiungendo alla ricetta qualche pizzico d’affetto, di stima e di fiducia reciproca. Nulla di più sbagliato. Chiedere a Don Claudio Burgio per avere conferma. Il 42enne sacerdote milanese, Presidente dell’Associazione Kayros, che in terra lombarda gestisce una comunità d’accoglienza per minori e di servizi educativi per adolescenti, nei giorni scorsi è stato a Rimini all’incontro intitolato “Non esistono ragazzi cattivi” per raccontare la sua interessante esperienza di educatore. Che poi non è altro che il titolo del suo ultimo libro (Edizioni Paoline 2010). Ne è venuto fuori un prezioso momento di confronto pieno zeppo di acute riflessioni. Il tutto organizzato dal “Centro Giovani RM 25” e dalla “Fondazione San Giuseppe”.
Don Claudio, la sua opera educativa a chi è rivolta principalmente?
“Ho a che fare con diverse fasce d’età: adolescenti, pre-adolescenti e giovani maggiorenni. A Milano questi ultimi, se non sono autonomi, si ritrovano ben presto in mezzo ad una strada. Mi relaziono con ragazzi in difficoltà che vengono collocati in comunità dai servizi sociali, e altri per motivi giudiziari sui quali pendono procedimenti penali”.
La comunità che gestisce che particolarità ha?
“L’Associazione Kayros ha una forte connotazione territoriale ma non vive certo isolata dal mondo. Abita la città con i ragazzi che accoglie, e lo fa cercando di ricollocare i ragazzi all’interno delle normali relazioni quotidiane. Per questo viviamo in centri residenziali confrontandoci con delle realtà di stretto vicinato, con tutto quello che questa situazione può comportare a livello di pregiudizi. Ma noi abbiamo comunque l’obiettivo di migliorare il territorio perché per esso possiamo essere una risorsa portando in dote la nostra cultura”.
“Kayros” significa “tempo opportuno”. Non è certo un caso che la sua Associazione abbia “Se un giovane ha commesso un crimine il suo “tempo di reato” può diventare un “tempo favorevole” attraverso itinerari faticosi ma affascinanti. È bello vedere ragazzi crescere anche di testa, capaci col tempo di costruirsi un futuro. Bisogna evidenziare un elemento: esiste un nesso forte tra il reato ed il consumo di droghe ed alcol. Per questo è fondamentale aiutare il giovane a rielaborare la propria storia. Entrando nel suo vissuto l’educatore si compromette, e ciò vuol dire che anche lui cambia e cresce. L’educazione non è assistenzialismo, ma è un’occasione per maturare e migliorarsi. Compromettersi significa avere capacità di guardarsi dentro nella consapevolezza che i propri tempi non coincidono con quelli del ragazzo in difficoltà”.
I giovani disagiati che ruolo giocano?
“Solitamente loro hanno un approccio molto seduttivo e strumentale, che si esplica molto bene anche in frasi molto elaborate che possono “sciogliere” emotivamente l’educatore. Per fare un esempio: “Tu ci capisci come pochi”, “Chi te lo fa fare a dedicare tutto questo tempo a noi?”, ecc… Il disincanto verso certi loro atteggiamenti rende l’opera educativa più efficace. La strumentalità che li può caratterizzare deve essere una variabile da accettare. Per questo è molto importante educarsi ed educare”.
La fede in questi scenari che cosa rappresenta?
“La fede ha la capacità di tradurre operativamente la capacità educativa di un formatore. Se la guida è il Vangelo si va oltre le difficoltà. Seguendo la sua strada gli ostacoli sono un occasione per ritrovare una maggiore autenticità in ciò che si sta facendo. Non bisogna mai arrendersi”.
In una società dove si seguono modelli molto effimeri di uomini e donne, di cosa hanno bisogno i giovani?
“Necessitano di figure nette e mature, altrimenti rischiano di non percepirne la verità. Per paura di fomentare malesseri molti educatori forniscono mezze risposte ed i ragazzi capiscono quando ciò accade cogliendo l’insicurezza. Ognuno di noi ha dei limiti ma questi non ci impediscono di educare. L’ostacolo è un “kayros”, un momento favorevole. Si può essere bravi educatori, ma la perfezione non esiste”.
In quali difficoltà rischia di inciampare un adulto?
“Uno dei rischi più grossi è quello di andare avanti per schemi: l’esperienza non è tutto, non è mai sufficiente. Lo sforzo educativo vero e proprio è quello di trovare un equilibrio nel portare alla conoscenza del ragazzo certe cose, confrontandole con la sua reale situazione. Più in generale uno dei seri rischi è quello di aiutare il ragazzo a vincere la sua dipendenza attraverso un’altra dipendenza, che è rappresentata dal legame che si crea con la struttura che lo accoglie e con le persone che gli stanno vicino. La comunità non deve essere un dolce luogo di internamento”.
Quindi il ragazzo come deve vivere la quotidianità all’interno di queste strutture?
“Il singolo giovane deve essere il protagonista del suo progetto educativo e la comunità deve essere un luogo di personalizzazione nel quale devono esistere regole tassative, che sono fondamentali, ma altre devono essere negoziate. Meglio il conflitto, la negoziazione e la personalizzazione delle norme piuttosto che l’imposizione totale. Il lavoro educativo non si prefigge come scopo quello di crescere bravi ragazzi, bensì deve porsi l’obiettivo di rendere i giovani capaci di discernere. Bisogna aiutarli a comprendere la loro realtà facendo in modo che siano in grado di scegliere, mostrando loro la possibilità di risolvere determinati problemi in mille modi corretti diversi tra loro, piuttosto che in poche maniere illegali”.
L’educatore come si colloca in tutto questo?
“Non deve star fermo perché l’adolescente fa le sue mosse, muovendo le sue pedine. Si tratta di un gioco dinamico all’interno del quale si fa educazione. Non si deve avere paura, anche se è giusto riconoscerla. Inoltre un adulto deve combattere vere e proprie battaglie culturali per il bene della sua opera educativa e nel mio caso lo faccio con i tribunali, le istituzioni e gli assistenti sociali. Infatti l’adulto non può chiedere ai ragazzi di rischiare una vita nuova senza esporsi lui stesso. Un educatore deve rischiare, consapevole delle sue responsabilità di adulto”.
Oggi le etnie con le quali ci si deve rapportare sono molte. È un limite o un’occasione di crescita?
“La diversità fa paura, ma dobbiamo educare nelle differenze e nell’alterità”.
Un ragazzo da solo non è cattivo. Ma più ragazzi insieme possono esserlo. È d’accordo?
“Sì, ma anche le bande sono composte da singoli ragazzi, ognuno dei quali ha una storia da incontrare”.
I genitori sono i principali educatori. Cosa consiglia loro?
“È fondamentale instaurare un rapporto nel quale il ragazzo non debba esibirsi in continue prestazioni per farsi voler bene. Molti giovani hanno ricevuto troppo e hanno paura di perderlo, e se ciò accade non si sentono più degni di stima. Gli adulti devono educare senza chiedere alcun conto. L’educatore non deve agire, nel caso in cui i ragazzi sbaglino, per alimentare in loro il senso di colpa, perché quest’ultimo non è un oggetto educativo. Bisogna parlare poco e stare loro vicino, utilizzando il corpo come strumento di linguaggio. Infatti il nostro fisico è domanda, invocazione e risposta”.
Nel processo educativo è concepibile il concetto di “fallimento”?
“L’educatore non è tutto, arriva dove può. Ci sono da tenere in considerazione il giovane che vive il disagio e anche tutti gli altri che stanno intorno. Bisogna accettare il limite dell’impotenza educativa”.
Matteo Petrucci