È necessario non nutrire il male. E non armare la guerra. Troppe tesi false e ideologiche si diffondono all’indomani della strage di Parigi. Tra queste, è molto popolare quella che individua nella religione la principale ragione del conflitto. Piergiogio Grassi, riminese, professore ordinario di Filosofia delle religioni all’Università di Urbino, dove ha diretto per vent’anni l’Istituto Superiore di Scienze Religiose “I. Mancini”, ci offre una lettura di Parigi e della guerra liquida in atto.
La strage di Parigi è un atto disumano; è il commento del Papa. C’è il rischio che alimenti una strategia del terrore anche a casa nostra?
“È un atto che di umano ha solo il raziocinio con cui è stato compiuto. La guerra che il jadhismo ha dichiarato contro i suoi nemici non conosce confini. Ricordiamo che dal 2000 in poi sono stati tanti gli attentati, in tutte le parti del mondo. I primi nemici sono considerati quelli interni all’Islam, quelli che non si piegano ad una sua interpretazione violenta. Basta vedere quello che è successo in Iraq dopo la destituzione di Saddam, quello che è successo e succede in Siria e in altre parti del Medio oriente. Decine di migliaia di morti e milioni di esuli; città antichissime letteralmente distrutte. L’attacco è poi portato all’Occidente, considerato oppressore, colonialista, esportatore di stili di vita e di modelli sacrileghi e comunque coinvolto in molti modi nelle vicende economiche e politiche dell’altra sponda del Mediterraneo. Ma bisogna mantenere i nervi saldi e ragionare, senza lasciarsi prendere dal desiderio di vendetta. Una risposta da esseri umani e da credenti, di fronte a gesti disumani e contrari alla religione («una bestemmia verso Dio»), si basa sul rifiuto della logica dell’occhio per occhio, dente per dente e compie gesti basati su ciò che è giusto e retto, per creare ponti e premesse di pace. Ed è giusto che lo Stato, gli Stati si difendano, proteggano le popolazione, respingano il terrorismo e chi lo pratica”.
“Le religioni parte della soluzione non il problema”, era il titolo di un interessante incontro ospitato al Meeting 2015. Eppure molti commentatori non sono convinti che le religioni siano un baluardo contro il nichilismo delle società contemporanee e rappresentino un bene per tutti. Anzi, alla luce di quanto avvenuto a Parigi, costituirebbero il problema.
“L’argomentazione si potrebbe ribaltare, se si avesse voglia di polemizzare, mentre il caso serio è come uscire da questa situazione. Si potrebbe rispondere che le più grandi catastrofi del XX secolo, da Auschwitz ai Gulag staliniani, per restare in Europa, non le ha inventate la religione. Mentre solo un’alleanza tra le religioni del mondo e tutti gli uomini di buona volontà può arginare un crescendo di odio che avvertiamo portatore di sofferenze atroci. Non dobbiamo dimenticare che il «no alla guerra» gridato da Giovanni Paolo II, quando stava per essere scatenata la tempesta di bombe in Iraq, era lungimirante e profetico: la guerra talvolta appare inevitabile (in quel caso non lo era…), ma è sempre disastrosa. E gravida di conseguenze. Molti osservatori sostengono che quell’avventura verso Bagdad è stata «la madre» di tutti i successivi conflitti. Che un’alleanza tra le religioni sia un passaggio obbligato lo crede fermamente papa Francesco che, indetto il Giubileo della misericordia, non intende tornare indietro dopo i fatti di questi giorni. Come ha detto il cardinal Parolin in una intervista a «La Croix»: il Papa vuole che il Giubileo si faccia perché serve alle persone per incontrarsi, comprendersi e superare l’odio. E al Giubileo della misericordia possono essere coinvolti anche i musulmani, dal momento che la misericordia è il più bel nome di Dio anche per loro”.
Secondo alcuni tra Islam e terroristi non c’è grande differenza. I confini sono sottili.
“È un errore dal punto di vista fattuale e dal punto di vista strategico. L’islam è una realtà plurale, non è un monolito e il gruppo dei jahdisti rappresenta una quota minima di coloro che si dicono credenti. Sono animati da una visione delle cose nettamente minoritaria. È il salafismo, una torsione politicistica dell’Islam, che ha bisogno della violenza per imporsi, giacché non ha consenso. Assimilare tutto l’Islam a queste posizioni significa convalidarne gli obiettivi: suscitare una guerra di civiltà e di religioni. Cadere in questa trappola è da ingenui oppure da persone che intendono mistificare la realtà per incrementare la paura e portare a consensi a partiti xenofobi e contrari all’idea di un’ Europa più unita e di un mondo pacificato”.
Ma anche i media (tv, quotidiani, settimanali, internet) sembrano rafforzare questa visione.
“È vero. Almeno una parte dei media, per mantenersi nel mercato della comunicazione, tende a suscitare emozioni forti, più che a far ragionare, a semplificare più che a spiegare, a lanciare slogan più che argomentare. Il mondo di internet poi è pieno di notizie fasulle e di dichiarazioni francamente improponibili. Piuttosto la domanda da farsi è perché tanti giovani che vivono in Europa (musulmani e convertiti all’Islam) partono come foreign fitgher, come combattenti stranieri, per la Siria e sentono così forte il richiamo dello stato islamico (Isis). Si parla di circa seimila persone che hanno attraversato la frontiera tra Turchia e Siria”.
C’è una risposta?
“Secondo Gilles Kepel, uno dei maggiori studiosi del mondo islamico, l’ideologia salafita e lo Stato islamico affascinano giovani che sono alla ricerca di un senso, di modelli di vita diversi da quelli occidentali, che credono sia possibile una palingenesi totale in condizione di eliminare tutte le contraddizioni dell’esistenza personale e collettiva. La globalizzazione ha privato molti di decisivi punti di riferimento. La globalizzazione è un’esperienza diversa per coloro che possono viaggiare, e per coloro che sono «dimenticati» ai piani bassi della società, vivono magari un forte disagio in famiglia e hanno un’altra percezione della realtà. Questi sono attratti da movimenti islamisti radicali o di destra come il Fronte nazionale o Casa Pound (in Italia). Già in Francia si levano voci autorevoli che chiedono controlli, sicurezza e una maggiore attenzione, ma anche una più attiva politica di inclusione dei figli di immigrati, cosa di cui si parla sin dalla crisi delle periferie francesi del 2005”.
Paolo Guiducci